Bianchi romagnoli: “E pur si muovono!”4 min read

Uno dei tanti misteri che questo meraviglioso mondo ci riserva, oltre ai terrapiattisti, riguarda i vini bianchi romagnoli e la loro esistenza.

Per cercare di risolvere il mistero qualche anno fa è nato un club, il Club dei Bianchi Romagnoli, ma solo per dare contro, in perfetta “bastiancontrarietà”, a chi sostiene che la Romagna sia terra adatta solo di rossi sanguigni che a volte fanno anche sanguinare le gengive, tale è la forza e la spigolosità di certi tannini.

Forse è una leggenda l’esistenza di vini bianchi romagnoli degni di essere portati sulle nostre tavole e deve essere proprio così perché, escludendo tutte le persone nate tra il 01 gennaio 1930 e il 10 giugno 1960, il resto della popolazione  i vini bianchi romagnoli non se li fila proprio.

I più colti affermano che non sono buoni, mentre i meno informati si dicono addirittura dubbiosi circa la loro stessa esistenza. Ma quale sarà mai l’oscura ragione del loro distacco dai nostri affetti? Una vocina cattiva suggerisce di ricercarne le origini nella scarsa qualità dei vini, mentre quella buona sostiene che anche volendoli scegliere a ristorante non potrebbero, vista la cronica latitanza degli stessi dalle carte dei vini. Molto probabilmente sono vere entrambe le affermazioni.

Nei secoli scorsi i bianchi romagnoli lasciavano a desiderare in quanto, come tutti oramai sanno, è solo con l’avvento della tecnologia del freddo ed il conseguente allargamento dei cordoni della borsa in attrezzature di cantina, che si sono venuti a creare i presupposti per realizzare dei bianchi discreti, puliti, profumati e con qualche arma di resistenza in più all’ossidazione.

Albana

E allora come mai continuano a trovare scarsissima collocazione nei locali? Forse per i nomi poco avvincenti? Oppure perché siamo afflitti da esterofilia? O, peggio ancora, perché vincere la pigrizia e rinunciare al comodo “reddito” di una lista di “soliti noti” extra-regionali risulta un esercizio troppo faticoso? Domande impegnative che rischiano di toglierci il sonno ma che, come si diceva in apertura, difficilmente troveranno una risposta.

I produttori accusano la ristorazione di non mostrare, per i nostri bianchi, la stessa sensibilità che hanno per altri prodotti agro-alimentari del territorio, e i gestori affermano che i nostri bianchi piacciono poco, i clienti non li scelgono e non sono poi così convenienti. Amen! Il chilometro zero non da solo non basta.

Ancora una volta la verità sta nel mezzo? Forse! Certo è che gente brava e motivata in una sala di ristorante ha molte più possibilità di veicolare i nostri valori territoriali, e dare un valido contributo alla valorizzazione di quanto c’è di buono nei vini bianchi romagnoli.

Ma servono anche vignaioli più sensibili e disponibili a promuoversi. Oggi difettiamo di entrambe queste figure, ecco perché sulle tavole dei nostri locali lo spazio per Albana, Pagadebit, Trebbiano, Biancame, Rebola e Famoso, si va sempre più riducendo.

Rebola

Ecco così il mio modesto contributo alla lotta per la conquista di uno spazio più dignitoso per i bianchi romagnoli nelle carte dei nostri locali.

Il primo vino che vi segnalo è una Rebola, vitigno di cui abbiamo già stabilito la fratellanza con il Pignoletto. Lo fanno in tanti, incluso il Podere Vecciano, azienda posizionata in una bellissima zona dell’entroterra riminese. Il secondo è un Trebbiano romagnolo. Sì lo so già state passando oltre, ma fate male: il Tèra di Fondo San Giuseppe è un Trebbiano di montagna, delizioso e  con le ultime versioni che vedono il legno poi ha più ciccia e lunghezza.

Per terzo, e poi mi fermo, ritorno a insistere sull’Albana: è’ quella della Fattoria Zerbina di Marzeno,  il Bianco di Ceparano. Non aspettatevi un vino potente o estremizzato, al contrario questa è una interpretazione stilisticamente molto “naturale”, piuttosto difficile da ottenere partendo da un vitigno complicato come è l’Albana. Serve una grande conoscenza per trasferire nel bicchiere, la naturale semplicità. E cosi è ora il Bianco di Ceparano, floreale quanto basta, con un frutto delicato che si affaccia al naso. In bocca ha polpa adeguata ed equilibrio sapido-minerale. Lineare, immediato, scorrevole, gustoso e competitivo nel prezzo. Bonus track: alcolicità contenuta.

Giovanni Solaroli

Ho iniziato ad interessarmi di vino 4 eoni fa, più per spirito di ribellione che per autentico interesse. A quei tempi, come in tutte le famiglie proletarie, anche nella nostra tavola non mancava mai il bottiglione di vino. Con il medesimo contenuto, poi ci si condiva anche l’onnipresente insalata. Ho dunque vissuto la stagione dello “spunto acetico” che in casa si spacciava per robustezza di carattere. Un ventennio fa decisi di dotarmi di una base più solida su cui appoggiare le future conoscenze, e iniziai il percorso AIS alla cui ultima tappa, quella di relatore, sono arrivato recentemente. Qualche annetto addietro ho incontrato il gruppo di Winesurf, oggi amici irrinunciabili. Ma ho anche dei “tituli”: giornalista, componente delle commissioni per la doc e docg, referente per la Guida VITAE, molto utili per i biglietti da visita. Beh, più o meno ho detto tutto e se ho dimenticato qualcosa è certamente l’effetto del vino.


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