Barbera, uno sguardo a volo di Falco9 min read

Provo affetto per la Barbera, in particolare per quella delle colline astigiane: è un sentimento che si alimenta di materia e di ricordi.

 La materia è nella polputa, carnosa, sprizzante esuberanza dei migliori vini bevuti da quelle parti, tra Nizza, Agliano e San Marzano Oliveto. Al ristorante Belbo, da Bardon, ho preso sbornie che voi umani…

 I ricordi sono delle persone che quei posti e quello strano vitigno mi hanno insegnato ad apprezzare. Uno per tutti: Tullio Mussa, il più grande ambasciatore della Barbera astigiana di ogni tempo. Andare a zonzo con lui, tra bricchi e cantine, tra vignaioli e ristoranti, era una festa.

 Questo breve pezzullo l’ho scritto pensando a te, Tullio, che troppo in fretta ci hai lasciato.  

Panorama astigiano

 Se è vero che il vino custodisce la memoria degli uomini e dei luoghi, allora la Barbera racconta molto del Piemonte e dei piemontesi. <<Gente pratica, di abitudini regolari, con poca fantasia, razionale piuttosto che poetica>> scrisse Paolo Monelli in Optimus Potor. Gente che produce e beve vini seri e robusti, che sanno invecchiare bene.

Nel fitto groviglio di piccoli e grandi vini italici, quelli piemontesi più di tutti rinunciano alle futili apparenze, ai ghirigori aromatici, alle morbidezze consolatorie. Essi possiedono invece la severità del soldato e la tempra laboriosa di chi viene dalla terra, e attingono all’evoluzione per affinare i modi e consacrarsi in un contesto per così dire, universale. Sono vini che vanno bevuti, attraversati, abitati: un consumo episodico è insufficiente per provare a comprenderli. Si tratta di vini antichi: inflessibili nei modi quanto elastici in bottiglia e a tavola.

In tal senso non fa eccezione la Barbera (si adotta convenzionalmente il femminile per il vino e il maschile per il vitigno), il cui nome rievoca una eco sonora che si diffonde in tutto il Piemonte: non c’è angolo vitato della regione dove questa fondamentale uva rossa non venga coltivata.

Dal Monferrato (sua terra d’origine) alla Langa (dove contende al nobile Nebbiolo e allo storico Dolcetto il primato vitivinicolo della zona); dal Roero all’Alto Piemonte, fino a raggiungere le vette montane della Valsusa e del Pinerolese (rarefatte isole vitate in provincia di Torino), sono decine le denominazioni legate a quest’uva così popolare, tra cui spiccano per vocazione, numeri produttivi e prestigio la Barbera d’Alba e la Barbera d’Asti (la mia preferita).

Nonostante la sua presenza sia tangibile anche fuori dal Piemonte, in particolare nell’Oltrepò Pavese, nel Piacentino e nei Colli Bolognesi (tacendo di alcune isole vitate nel resto d’Italia e di alcune centinaia di ettari nei paesi caldi del Nuovo Mondo), il Barbera è da sempre emblema piemontese, coprendo più di un terzo dell’intero vigneto regionale.

Una così vasta diffusione si concretizzò sia durante la ricostruzione viticola successiva alla crisi fillosserica, sia nel Secondo Dopoguerra: la robusta capacità produttiva, la facilità colturale e la costanza nelle rese furono i motivi del suo successo.

Successo che negli anni a venire si sarebbe consolidato anche dal punto di vista commerciale, attraverso la produzione di un rosso schietto, vigoroso, di acidità dissetante. La freschezza è per l’appunto la caratteristica tipica dell’uva Barbera, dovuta a eccezionali quantità di acido malico e tartarico. Altro elemento distintivo della varietà è l’inferiore concentrazione di tannini rispetto a buona parte della genetica piemontese (si pensi alla formidabile tannicità di Nebbiolo, Freisa e Grignolino), almeno in parte compensata da un colore particolarmente intenso e da vinose scorte di frutto.

Vigneti astigiani

Da qui la secolare considerazione della Barbera in una direzione esclusivamente gregaria, fruttata nel senso più superficiale, buona per il pasto frugale, soprattutto quando elaborata nella tipologia “vivace o mossa” (la letteratura racconta che una bottiglia di freisa dolce veniva addizionata alla damigiana di Barbera per facilitarne la rifermentazione).

Con tali fattezze era venduta sfusa e a buon mercato, vuoi per il consumo domestico vuoi per quello delle osterie (piole, in piemontese). La sua spiccata vocazione al bere quotidiano (così distante dall’intimidatoria austerità del Nebbiolo di Barolo e del Barbaresco) fu a lungo la sua fortuna (in termini di popolarità e di consumi) e nel tempo (anche) la sua rovina.

Con la fine degli anni Sessanta e per tutto il decennio successivo, la reputazione della Barbera venne continuamente sporcata da versioni villane e da politiche viticole inadeguate al controllo della filiera. Il declino giunse di conseguenza, con una perdita di credibilità che allontanò consumatori, venditori e – cosa ancora più grave – molti dei produttori più ambiziosi, rassegnati a considerare la Barbera un vino dall’immagine compromessa.

Fu infine lo scandalo del vino al metanolo a segnare drammaticamente la fine di quel periodo torbido, quando nella primavera del 1986 una ventina di persone persero la vita, altrettante diventarono cieche in modo permanente e altri essere umani restarono gravemente feriti. Quasi sempre per un tossico surrogato di Barbera.

Giacomo Bologna. Foto tratta dal sito aziendale Braida, che ringraziamo.

Per fortuna l’universo è fatto di storie, non di atomi (Muriel Rukeyser) e così la rinascita della Barbera cominciò (intorno alla prima metà degli anni Ottanta) grazie alla storia – e alle intuizioni – di Giacomo Bologna, vignaiolo e oste di Rocchetta Tanaro. Interprete tra i più carismatici in quel fervente periodo enologico, bevitore visionario col bernoccolo per i vini di alta classe, concepì una Barbera d’Asti impettita, spregiudicata, maturata in barrique di rovere nuovo e capace di confrontarsi con i migliori rossi nazionali e internazionali: il Bricco dell’Uccellone.

Quel vino d’avanguardia, nato nel 1983 e osannato dalla critica all’uscita delle ottime vendemmie del 1985 e del 1990, ridisegnò drasticamente il profilo espressivo della tipologia, facendo lampeggiare le potenzialità dell’uva Barbera in una chiave ben altrimenti ambiziosa e persuadendo una generazione di produttori a marciare spediti in direzione di un’epoca nuova, anche grazie ai favori della critica più navigata.

È da allora che la Barbera ha saputo ricostruirsi una buona fama, fornendo bottiglie di eccellente levatura e ottenendo l’apprezzamento di critici e intenditori. La Barbera d’Alba Larigi ‘86 di Elio Altare; Conca Tre Pile 1989 di Aldo Conterno; le astigiane Pomorosso ‘90 dei fratelli Coppo e La Bogliona 1990 dell’indimenticato Mario Pesce (Scarpa); Cascina Francia 1997 della Giacomo Conterno, Marun 1998 di Matteo Correggia e l’edizione 1999 di Sandrone; la Barbera d’Alba Gallina e la Barbera d’Asti Superiore de La Spinetta (entrambe del glorioso millesimo 2001), sono solo alcune delle splendide bottiglie personalmente bevute.

Referenze che hanno dimostrato, ciascuna con le proprie peculiarità, come il Barbera se opportunamente condotto in campagna, tragga dalla maturazione in legno (spesso di piccola taglia, ma non solo) ricchezza di sensazioni e profondità.

Affinché il Barbera possa consegnare mosti di grandi potenzialità ha bisogno di terreni asciutti (non tollera i ristagni d’acqua) e di sole: non è un caso che tra le tante varietà italiane coltivate in California, sia quella più diffusa, in particolare nella bollente Central Valley.

La sua avida esigenza di calore trova conforto lungo i rilievi collinari bene esposti, poco ventosi, non molto elevati (intorno ai 300 metri di quota) e nutriti da suoli evoluti a tessitura argillo-sabbiosa: esclusivamente in queste condizioni la sua naturale acidità e la sua spiccata verve fruttata possono essere condotte in una struttura omogenea e completa.

Pressoché ovunque potato a Guyot semplice (benché siano stati sperimentati con buoni risultati tagli a cordone speronato), trova buona affinità d’innesto con 420A e Kober 5 BB e oggi può contare su una selezione clonale più ampia che ha affiancato nuovi biotipi allo storico clone AT 84 (certificato nel 1980).

A dispetto della già citata ubiquità produttiva, il Barbera fornisce le prove più autorevoli solo nel Monferrato Astigiano, in particolare sui terreni pliocenici che caratterizzano il circondario di Nizza Monferrato e di Agliano Terme (dove guadagna densità e accattivanti sfumature minerali); sulle poderose marne calcaree di Langa (in virtù delle quali nebbioleggia, mostrando maggiori attributi fenolici); e sui bricchi sabbiosi del Roero, lungo i quali esprime vini più rarefatti, caldi quanto golosi.

Quando la maturazione nei contenitori di legno è condotta con maestria e la concentrazione degli elementi è ben proporzionata i caratteri precipui del vino sono rappresentati da una gratificante intensità aromatica (originata dalla fusione fra la vinosità e le spezie del legno), da una modulata potenza, da un’accattivante carnosità tattile e da una tensione sapido-acida che supplisce alla fisiologica carenza di struttura tannica. L’acidità è in effetti il fulcro attorno al quale ruota la sostanza delle Barbera più risolte, in grado di proporsi a un tempo calde e ritmate, piene e succose, generose e vitali, saporite e rinfrescanti.

Tuttavia negli ultimi due decenni la tendenza a ridurre troppo le rese e il concreto innalzamento delle temperature, ha condotto troppe Barbera in commercio su smisurati livelli di concentrazione, finendo con penalizzarne il ritmo e indebolirne il talento per la tavola.

Il futuro della grande Barbera non potrà dunque prescindere da un meditato ritorno all’equilibrio, attraverso maturazioni piene (evitando le surmaturazioni) e rese per pianta non eccessivamente basse.

Nelle migliori condizioni possibili, la Barbera è dunque un rosso di buon valore, che per quanto lontano dalla complessità e dalla grazia evolutiva dei Nebbiolo di maggior talento (Barolo, Barbaresco, Boca, Carema, Lessona, Gattinara, Ghemme, Valtellina e Roero), può competere con i più prestigiosi vini del mondo sul piano della piacevolezza, della disponibilità gastronomica e della conservazione.

Asino di Bruna Ferro, Carussin

Una Barbera di pregio non avrà mai il talento per un’emancipazione raffinata in bottiglia, ma saprà rivelarsi stabile (dunque longeva) per almeno quindici anni e talvolta di più.

Oggi sono tanti i produttori piemontesi che meritano le attenzioni degli appassionati: io ho stima per il lavoro di Ezio Trinchero di Agliano, i cui vini esibiscono una personalità poderosa, ideale per il bevitore smaliziato; mi piacciono le Barbera albesi di Vietti (a Castiglione Falletto), di Beppe Caviola (Ca’ Viola di Dogliani), di Mauro Veglio (a La Morra), di Mario Fontana (Cascina Fontana di Monforte d’Alba), di Marta e Carlotta Rinaldi (Giuseppe Rinaldi di Barolo).

E a mio parere meritano le attenzioni degli appassionati le Barbera astigiane di Ignazio Giovine (L’Armangia di Canelli), Gianluca Morino (Cascina Garitina di Castel Boglione), Fabrizio Iuli (Iuli di Cerrina Monferrato), Gianni Bertolino (Olim Bauda), Susanna Galandrino (La Gironda di Nizza Monferrato), Bruna Ferro (Carussin di San Marzano Oliveto) e Nadia Verrua (Cascina Tavijn di Scurzolengo).

 

“ A Tamy, come sempre.“ 

 

La foto di copertina è di Nicolò Minerbi, tratta dal sito del Consorzio Barbera d’Asti e vini del Monferrato. Ringraziamo entrambi.

Francesco Falcone

Nato a Gioia del Colle il 6 maggio del 1976, Francesco Falcone è un degustatore, divulgatore e scrittore. Allievo di Sandro Sangiorgi e Alessandro Masnaghetti, è firma indipendente di Winesurf dal 2016. Dopo un biennio di formazione nella ciurma di Porthos, una lunga esperienza piemontese per i tipi di Go Wine (culminata con il libro “Autoctono Si Nasce”) e due anni di stretta collaborazione con Paolo Marchi (Il GiornaleIdentità Golose), ha concentrato per un decennio il suo lavoro di cronista del vino per Enogea (2005-2015). Per otto edizioni è stato tra gli autori della Guida ai Vini d’Italia de l’Espresso (2009-2016). Nel 2017 ha scritto il libro “Centesimino, il territorio, i vini, i vignaioli” (Quinto QuartoEditore). Nell’estate del 2018 ha collaborato alla seconda edizione di Barolo MGA, l’enciclopedia delle grandi vigne del Barolo (Alessandro Masnaghetti Editore). A gennaio 2019, per i tipi di Quinto Quarto, è uscito il suo ultimo libro “Intorno al Vino, diario di un degustatore sentimentale”.  Nel 2020 sarà pubblicato il suo libro di assaggi, articolazioni e riflessioni intorno allo Champagne d’autore. Da sei anni è docente e curatore di un centinaio di laboratori di degustazione indipendenti da nord a sud dell’Italia.


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