“Attenti a quei due”…vini simbolo dei Colli Piacentini8 min read

Intanto un po’ di storia e un minimo di chiarezza, in primis per il sottoscritto che, è giusto ammetterlo, conosceva la denominazione oggetto di questo articolo davvero molto poco.

E’un fatto che sui colli piacentini il vino sia di casa dai tempi degli Etruschi, la cui tradizione enologica è stata proseguita e amplificata dai Romani, come del resto è accaduto in tutto il nostro bel paese. Successivamente la conservazione della viticoltura piacentina è stata garantita dall’opera dei Monaci di San Colombano fino all’esplosione vitata del secondo dopoguerra.

Il meglio della produzione è posizionata in collina in un’area vitivinicola che comprende quattro valli – Val Tidone, Val D’Arda, Val Trebbia e Val Nure – per un’estensione di oltre 5.000 ettari (di cui 3300 rivendicati a DOC) con giaciture che portano i vigneti a quote comprese tra i 150 e 450 metri s.l.m.

I suoli hanno una tessitura variegata che va da profili molto argillosi a quelli più franco-limosi, dalle composizioni con predominanze calcaree a quelle sub acide.

Alle terre rosse provenienti da antichi depositi fluviali, si alternano quelle fossili del Piacenziano che invece è caratterizzato da depositi marini ricchi di sabbie e argille plioceniche.

I vini prodotti sono tutelati e promossi dal Consorzio Tutela Vini D.O.C. Colli Piacentini, fondato nel 1986 e che ogni anno si ritrova con produttori (circa una’ottantina), amministrazioni locali ed enti promozionali a fare il punto della situazione durante il Monterosso Val d’Arda Festival (in primavera) e il Valtidone Wine Fest (in autunno).

Sotto l’operato del Consorzio, le denominazioni più note e rinomate sono tre: Gutturnio, Ortrugo e la Doc “cappello” Colli Piacentini, nella quale trova dimora un vitigno che pare abbia posto qui  l’esclusiva, perché, a quanto ci dicono non è coltivato in nessuna altra zona d’Italia: la malvasia aromatica di Candia (oggi Creta).

Di fatto è un appartenente alla prolifica famiglia delle Malvasie (almeno 19 varietà con diverso DNA solo nella nostra penisola) che con il suo imponente bagaglio storico-culturale ci riporta indietro nei secoli ai tempi dei fiorenti commerci tra la Repubblica di Venezia e il porto greco di Monemvasia.

L’occasione per conoscere meglio questi vini è arrivata poche settimane fa, durante due eventi “Emilia in Villa” e “Il mito della Malvasia”, organizzati all’interno dell’ “Emilia Wine Experience”, un progetto di costruzione di un brand territoriale promosso, tra gli altri, dalla Strada dei Colli Piacentini, la Pro Loco di Castel San Giovanni ed il Consorzio Tutela Vini DOC Colli Piacentini.

Il primo momento di condivisione è stata una degustazione tecnica di 15 etichette (5 Gutturnio, 5 Malvasia ferme e 5 passite) frutto di una selezione tra i diversi profili sensoriali e le differenti tecniche di vinificazione del Gutturnio Superiore e Riserva e della Malvasia in versione ferma e passita.

“ll risultato di questa selezione che oggi viene presentata in anteprima – racconta Marco Profumo Presidente del Consorzio – è uno degli step di un percorso intrapreso che ha come obiettivo la costruzione di un disciplinare condiviso con tutti i produttori che porti alla creazione di una DOCG Piacenza per un rosso ed un bianco fermi”.

Sul palco insieme a Profumo, la professoressa Milena Lambri referente di Enologia e Analisi Sensoriale all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza, Elisabetta Virtuani Presidente della Strada del Vino e dei Sapori dei Colli Piacentini ed il collega Gianni Fabrizio con il ruolo di moderatore dei numerosi interventi dei produttori presenti che con grande entusiasmo hanno voluto raccontare presente e futuro di questi vini che di fatto hanno una storia e una provenienza molto diversa tra di loro.

Per la malvasia aromatica di Candia le cinque etichette, in versione ferma con annate che vanno dalla 2020 alla 2021, ci raccontano di un vitigno che vive oggi un suo personalissimo “rinascimento”.

Snobbato dal grande mercato negli anni ’80 e ’90, per via di un corredo aromatico ingombrante, quasi sempre proposto in versione frizzante amabile o abboccata, negli ultimi decenni proprio nella sua dimora piacentina, ha dato vita ad una versione in cui si possono riconoscere, con diverse forme e intensità legate soprattutto alle scelte di vinificazione, aromi di agrumi maturi, frutta candita, precise note erbacee, sentori di miele e spezie orientali.

Un vitigno che, segnalano i produttori, si presenta versatile e capace di conciliare differenti interpretazioni e stili, un’uva in grado di sostenere, a seconda dei suoli, sia la riduzione che l’ossidazione per un vino capace di regalare notevoli soddisfazioni anche sotto l’aspetto della longevità.

In cantina l’uso del legno piccolo quasi sempre di secondo passaggio, macerazioni prefermantive (con le bucce, prima della pressatura) e temperature controllate; tanti gli strumenti di vinificazione innovativi per questo areale come i clayver a microssigenazione controllata per un’evoluzione ideale, l’anfora e i contenitori di cemento.

Per tutti la necessità di addomesticare l’amaro che si presenta nel finale per un vino che vuole essere abbinabile e gastronomico, facile da presentare e comunicare.

Altra storia per il Gutturnio, il rosso simbolo dei vini piacentini (40% degli ettari della DOC) ottenuto da un blend di barbera (dal 55 al 70%) e croatina (dal 30 al 45%), che qui a Piacenza, si sa, viene chiamata Bonarda. 
Il suo nome deriverebbe dal latino Gutturnium termine con il quale si identificava una coppa di vino in argento decorato con figure romboidali finemente cesellate, ritrovata durante gli scavi di Veleia Romana verso la fine dell’Ottocento.

Prodotto sia in versione frizzante che ferma (Superiore e Riserva) ha costruito la sua narrazione e il suo mercato (di nicchia) partendo proprio dalle diverse personalità delle uve che lo compongono.

La barbera povera di tannini ma dalla poderosa acidità da un lato, la croatina con la sua buccia spessa gravida di antociani resistenti, ricca di tannini e di polifenoli e con una maturazione – a differenza della barbera – piuttosto tardiva, dall’altro.

L’idea di fondo è sempre stata quella di realizzare un vino di buona struttura, dal colore intenso e vivace con un sorso deciso e robusto.

Per le vinificazoni si parte da un estratto sempre molto alto, macerazioni comprese tra i 10-12 giorni a seconda dell’apporto tannico della croatina non sempre facile da gestire, lunghe maturazioni in legno (piccolo e non nuovo) che possono stancare il sorso e risultare, oggi, anacronistiche rispetto al gusto e alle tendenze moderne.

L’analisi dei vini degustati – tutti in versione ferma con annate dal 2019 al 2021 – evidenza un coda alcolica piuttosto lunga, che in sostanza maschera l’essenza del frutto specie nella fase retro olfattiva. Se a ciò si sommano un’acidità che non cede e la presenza di tannini vigorosi ancora non completamente armonizzati, la risultante è un equilibrio complessivo complicato da ottenere, almeno nel breve periodo.

Meglio i Superiori, meno tirati e strutturati delle Riserve, in cui il frutto si perde quasi completamente. Tra le innovazioni future l’introduzione nel blend dell’ervi (vitigno a bacca nera ottenuto negli anni ’70 dal professor Mario Fregoni, incrociando Barbera e Croatina ) che dovrebbe portare maggiore armonia ed equilibrio con la sua acidità meno intensa della barbera e un tannino più morbido della croatina.

A chiudere la degustazione 5 versioni di malvasia in versione passita e una chicca finale con l’assagio del Vinsanto di Albarola 2009 dell’azienda Barattieri, appassito su graticci in bambù e posto in caratelli di rovere per almeno nove anni.

Ultimo appuntamento, una Masterclass che ha ripercorso la storia della malvasia, con quattro etichette che partendo dalla patria Grecia, passando per la Croazia, arriva in Italia con un’etichetta del Granducato di Parma in versione spumante e una storica ferma piacentina, quella dell’azienda La Tosa.

In conclusione questa due giorni piacentini mi ha fatto conoscere un bel territorio fatto di realtà produttive a dimensone d’uomo ma di grande competenza ed entusiasmo, alla ricerca di un percorso nuovo in bilico tra tradizione e futuro con l’idea di fare sistema mantenendo, ove possibile, le proprie individualità.

Dunque bene la necessità di promuovere un territorio partendo dal racconto dei suoi vini simbolo, la poliedricità degli stili di produzione e la valorizzazione delle sfumature (puchè non si esageri) per una malvasia secca, moderna e versatile.

Meno bene le riserve rosse, ancora un po’ troppo legate all’ ”ancien régime” e di difficile diffusione sul mercato. Da discutere attentamente la ricerca spasmodica di una ennesima DOCG per valorizzare un territorio che deve ancora crescere in termini di ricettività turistica e appeal enoico, in modo di essere in grado di attarre maggiormente i consumatori extraregionali.

Andrea Donà
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