A proposito di “Portaci un altro litro”5 min read

Interessante la pubblicazione di Maurizio Taglioni sul “Perché a Roma non si beve vino dei Castelli”. Già perché nonostante la regionalizzazione dei consumi sia in una fase avanzata in tutte le aree dell’Italia, nel Lazio il consumo di vino prodotto nella regione, continua ad essere, tutto sommato, scarso. Ciò ha provocato e continua a provocare non pochi riflessi nell’economia e nella vitivinicoltura dei Castelli Romani.  Il libro, seppur supportato da fonti storiche ed etnografiche ed un ampio ricorso ad interviste e questionari redatti secondo metodologie scentifiche, non sempre però riesce a sintetizzare i motivi dell’insuccesso del vino castellano.

Gli anni Settanta/Ottanta

Se per tutto il periodo degli anni Sessanta e l’inizio Settanta il vino dei Castelli ha continuato a giocare un ruolo, anche importante in campo nazionale, ( basti pensare alla Cantina Sociale Cooperativa di Marino, un enopolio all’avanguardia, consultato da tutta Italia per la soluzione dei problemi di stabilizzazione dei vini. Il direttore tecnico era un certo Ezio Rivella. ndr),   è a partire dagli anni Settanta/Ottanta che si è giocata – e si è persa – la partita della presenza sul mercato romano. Una tendenza che poi negli anni Novanta ha di fatto completamente marginalizzato il vino locale che solo negli ultimi 10 anni ha dato  segni di ripresa.

Infatti negli Settanta/Ottanta più o meno tutte le più prestigiose  aree vinicole del nostro Paese (Friuli, Piemonte, Toscana, Veneto, Alto Adige, ecc.) hanno messo in discussione il vecchio modello produttivo, ormai stanco ed obsoleto, e hanno posto le basi per un rinnovamento profondo dell’intera gamma produttiva, sia in campagna che in cantina. Ricerca, sperimentazione sui vitigni, fermentazione a freddo, ricerca clonale, infittimento e introduzioni di nuovi vitigni, ecc. ecc.

A parte rarissimi esempi, Paola Di Mauro e Fontana Candida in primis, erano davvero pochi i produttori in grado di cimentarsi con il cambiamento che stava avvenendo in buona parte dell’Italia e con una domanda di qualità che ormai veniva ovunque richiesta. Era il periodo delle rese elevatissime e dei vini neutri, dotati di personalità assai incerta, più da sfuso che da bottiglia.

I vini castellani e laziali in genere, solo per parlare di bianchi, da sempre un vanto regionale, per questo erano lontani anni luce dal livello espresso dai friulani – Colli Orientali e Collio Goriziano in primis- oppure dagli altoatesini che a Roma avevano saputo conquistarsi solide basi di mercato.

Non a caso i marchi friulani più famosi (Felluga, Russiz Superiore, Abbazia di Rosazzo, Venica, Princic, Cantina di Cormons, Jermann, ecc. ecc.) erano presenti in forze al contrario di tante etichette castellane non proprio di eccelsa fattura. Insomma i Castelli, così come il Frascati, hanno mancato all’appuntamento con la storia.

Non a caso quando alla fine degli anni Settanta sono nate le prime enoteche wine bar, su tutte Pasquino e Cavour 313, sulla scia delle quali sono nate decine e decine di locali dove la mescita era un elemento essenziale, la presenza dei vini laziali, e del Frascati, era del tutto residuale se non inesistente. La stessa cosa succedeva nei ristoranti di riferimento per il buon vino (e per il buon cibo), da Ciarla a Checchino, dal Girone VI a Severino a Piazza Zama, dal Lord Byron al Pianeta Terra, a tutti quei locali che non a caso avevano liste dei vini ricchissime che spaziavano su tutte le regioni vinicole non solo italiane ma anche estere ma con una risibile presenza laziale.

Da questo punto di vista a mancare nella pubblicazione di Taglioni è l’individuazione di fonti che all’epoca avevano un ruolo nella diffusione del vino di qualità dei ristoranti di Roma e provincia come sommelier, agenti di commercio, gestori di wine bar, ristoratori o anche gli stessi produttori vinicoli di punta, che potevano spiegare con dovizia di particolari, come e cosa successe sul fronte del vino nella ristorazione romana.

Così come non sono state compulsate, per esempio, la Guida dei Ristoranti di Veronelli, tanto per citarne una, che dedicava un significativo spazio e un particolare riconoscimento alle liste dei vini e di cui forniva sintetici ma significativi cenni. Tra questi assenti voglio solo fare un nome, quello di Concetto Saffioti di Pasquino che già allora aveva una carta dei vini con almeno 600 referenze e che ha avuto uno straordinario ruolo nella diffusione del vino di qualità tra i giovani influenzando l’intero commercio del vino a Roma.

Altro aspetto un po’ sottovalutato è il ruolo svolto da disciplinari di produzioni dei vini del Lazio. Su tutti vale come esempio quello della Doc Frascati che, nel periodo più volte citato in precedenza, visse un lungo periodo avendo come caratterizzazione non tanto la malvasia puntinata (oggi presente dal 10 al 40%), quanto soprattutto il trebbiano (oggi al 10-20% contro 90-100% del 1966) che per molti anni fu la vera base del vino e ne segnò il declino.

Recuperare le posizioni perdute è un lento processo ormai avviato da una quindicina d’anni dai vini castellani e in generale del Lazio, si tratta di un lungo e non facile percorso. Il libro di Taglioni apre un significativo squarcio e pone le basi per una riflessione che sin qui è mancata o è stata carente. Anche se, a parte i soliti noti che hanno dimostrato da tempo di aver capito la lezione, i grandi assenti sembrerebbero proprio i produttori, cantine sociali in primis.  

 

 “Portaci un altro litro- Perché a Roma non si beve vino dei Castelli” di Maurizio Taglioni, Edizioni Lavinium.

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


ARGOMENTI PRINCIPALI



LEGGI ANCHE