In questa rubrica non parleremo dei problemi geriatrici di qualcuno di noi (anche se sarebbe utile). Il nostro intento è quello di andare a scovare e raccontare i vini italiani “non giovanissimi”. Abbiamo pensato a questa dizione perché non parleremo quasi mai di quelli che vengono definiti “vini da grande invecchiamento” ma cercheremo sorprese, chicche, specie tra vini che nessuno si aspetterebbe.

Non ho mai capito se è l’amarcord che induce a stappare le vecchie bottiglie con i vecchi amici, o se è la compagnia dei vecchi amici che t’invoglia ad aprire le vecchie bottiglie. Probabilmente tutte due le cose. Ma poiché il discorso rischia di scivolare nel patetico, forse è meglio sorvolare e andare dritti all’oggi. Anche se è difficile sottrarsi alla fascinazione dei corsi e dei ricorsi, soprattutto enoici.
E’ un anno quasi tondo che, compiendo un tuffo nei luoghi gloriosi di un gaudente passato (aridaje…), avevo raccontato in questa rubrica i fasti di un Chianti Classico risalente addirittura a quando, bambino, il vino lo bevevo solo di nascosto e senza troppo andare per il sottile con tannini e sentori vari.
Dodici mesi dopo, però, il fato mi ha riportato con gli stessi amici e la stessa cantina, quella di Villa Calcinaia dei conti Capponi a Greve in Chianti. Ed ha voluto che Niccolò e Sebastiano stappassero per l’occasione – la presentazione, al ristorante fiorentino Cibreo, della Linea 1524, che include il Metodo Classico Mauvais Chapon e i vini IGT prodotti nella storica tenuta di famiglia – alcune rare bocce, tra cui una 1997 e le venerabili magnum 2004 e 2010 del Casarsa, il loro Merlot 100% (all’epoca Colli della Toscana centrale Igt, oggi Toscana Igt), per metterle a confronto con l’ultima annata entrata in commercio, la 2019.
La tenzone comparativa meriterebbe un’approfondita e dedicata trattazione, ma mi è impossibile tacere oltre di quel sontuoso 2004 assaggiato.
Il colore rubino profondo e caldo non tradisce l’età, mentre al naso il vino riflette tutta la riconoscibilità dell’annata calda e la tipicità del vitigno, con le note appena agèe di un bouquet integro, muscolare, dotato di una vitalità piena e di un’asciuttezza bella dritta, che non dà adito a strascichi o cedimenti e lascia onestamente compiaciuti. Nemmeno al sorso delude. Anzi: il palato è opulento, sapido, integro e rotondo, pienamente godibile, a suo modo un vero classico, da apprezzare in sé e nel quadro dell’epoca in cui fu prodotto. “Fermentò in vasche di cemento e poi maturò per venti mesi in barrique da 225 litri, solo più tardi iniziammo a usare per il Merlot i tonneaux che cominciavamo ad avere in cantina”, rievoca oggi Sebastiano Capponi.
Io l’ho accompagnato con un tenero rollè di coniglio riccamente farcito.
Chi volesse emularmi (se non nell’abbinamento, almeno nella bevuta), sappia che il vino è ancora disponibile in cantina.