Dal giorno alla notte, Champagne Blanc de Noirs7 min read

Da viaggiatore mi piace la Champagne per motivi opposti a quelli che di solito ne alimentano gli stereotipi. La Champagne vera ad esempio non ha nulla di glamour, vivaddio. È campagna spoglia, campanili scheggiati, rustici bar dove servono tristi surrogati di caffè, trattorie in bianco e nero che odorano di neorealismo, uomini e donne segnati dal freddo, villaggi scabri sotto cieli ingrigiti da nuvole atlantiche.

Quando si parla di Champagne si fa spesso riferimento all’aristocrazia. E invece in Champagne mi affascinano gli aspetti rurali, paesani, gli eterni spazi disabitati, l’immensa solitudine delle notti d’inverno, le cicatrici delle guerre, visto che la sua posizione geografica, in uno dei grandi crocevia dell’Europa, l’ha sempre sottoposta alla furia degli eserciti fin dai tempi più remoti.

La Champagne è grande, più vasta per superficie perfino della Sicilia, del Piemonte, della Sardegna e della Lombardia, le più grandi regioni d’Italia. Per contro, ci vive poca gente: in Lombardia dieci milioni di abitanti, in Champagne meno di un milione e mezzo, molti dei quali concentrati nei dintorni di Reims, Châlon en Champagne, Épernay e Troyes.

Si percorrono decine e decine di chilometri senza incontrare anima viva; si frequentano comuni in miniatura, sgualciti dal tempo, senza traccia di vita reale. Degli oltre 300 paesi viticoli della regione (319 per l’esattezza) moltissimi di essi sono ipotesi di comunità: tu puoi solo immaginare che lì ci viva qualcuno, perché non ne avrai mai le prove.

La Champagne è considerata una zona viticola imponente, ma per vedere la vigna non basta frequentarla distrattamente. Occorre entrarci, viverla. I 33.000 ettari vitati in una regione cosi ampia tendono a diluirsi: è vero che vi sono luoghi in cui la vigna è onnipresente, ma è vero anche che ve ne sono moltissimi di più dove di viti ce ne sono pochissime, piccoli appezzamenti rubati al nulla, qualche ettaro che si perde tra foreste e seminativi.

La sua immagine è legatissima alle celebri Cuvée de Prestige dei marchi più lussuosi, raccontate con enfasi, descritte con aggettivi altisonanti, iperbolici. Invece dei vini di Champagne io amo gli aspetti laterali, il loro essere al limite di ogni tipologia possibile, la loro esistenza periferica rispetto al centro geografico di una sola idea di vino.

Mi piace come sanno attraversare il confine – labile – tra freschezza e crudezza, tenacia e durezza, leggiadria e leggerezza, organica superficialità e minerale profondità. Ciò che mi ha sempre ispirato, bevendo, studiando e scrivendo di Champagne, è la sua fragilità, che quasi per miracolo si trasforma in un formidabile punto di forza.

In molti libri di Eugenio Borgna si parla della fragilità come di un’opportunità: prolasso emotivo che lascia spazio alle riserve di energia più intime, piega che porta in dote sensibilità superiori, smorfia che desta empatia, dolore che rafforza lo spirito. Borgna è uno psichiatra e conduce le sue indagini su uomini, donne e bambini, ma si può tentare un’estensione di quelle analisi anche nel vino, dove per l’appunto la fragilità può propiziare una complessità superiore. Così è, in effetti.

Un vino peculiare e carismatico che a sua volta nasce da un altro vino magro, smilzo, sigaligno, fragile appunto. Un vino acidissimo e parco nel volume alcolico che attraverso la rifermentazione in bottiglia può accedere a esiti di furibonda personalità. Un vino piccolo che poi diventa grande, inossidabile. Un vino freddo, glaciale che può arrivare a scaldare i cuori di milioni di persone.

Benché il protocollo di elaborazione dello Champagne imponga una robusta profilassi enologica (più o meno artigianale, più o meno industriale a seconda degli approdi interpretativi), gli Champagne che piacciono ai bevitori coltivati vivono in simbiosi con gli elementi del terroir, esprimono minuzie inaspettate, possiedono sapori succhiati dalla terra, dall’ambiente, da quella particolare situazione geografica. Sfidando i decenni, cambiando pelle, sublimando il genius loci ed emancipandosi come pochi altri vini al mondo sanno fare. E anche questo è un piccolo miracolo o quantomeno un mistero.

Non è un mistero invece, per chi mi segue, che di tutte le possibili variazioni sul tema, e sono tante, io preferisca parlare e scrivere di quelle bottiglie che spiazzano e mettono in fuorigioco ogni bellezza formale, che rivoltano i luoghi comuni come un calzino. E in quel calzino ci voglio trovare la befana. E qual è la mia epifania in tema di Champagne? I Blanc de Noirs, come si evince dal titolo del mio pezzullo scritto per gli amici di Winesurf.

I Blanc de Noirs in Champagne possono essere prodotti con uve Pinot Noir o Meunier; oppure con entrambi i vitigni assemblati. Del resto la regione ha una vocazione rossista che è ben precedente a quella spumantistica. Fino a metà Settecento il vino locale era spesso rosso o grigio, più raramente bianco. E ancora oggi qualche Coteaux Champenois Rouge può essere superbo grazie a interpreti del calibro di Francis Egly a Ambonnay, Pierre Larmandier a Vertus, Bollinger a Ay.

Il rosso è dunque il colore ancestrale della Champagne. Nel Quattrocento i vini di Aÿ (prodotti con uve pinot noir) erano considerati eccellenti dai più smaliziati consumatori di Parigi e nel corso dei due secoli successivi si affermò l’uso del nome Aÿ per indicare i vini di tutto il distretto, così come Beaune era usato per i Borgogna.

A quei tempi il vino locale non era spumante (e se spumava non lo faceva per scelta strategica dei produttori, ma per instabilità delle basi) e risultava essere molto spesso colorato (grigio o di un rosso chiaro, tenue), più o meno della stessa tipologia che si produceva in Borgogna, solo che gli esiti erano meno felici per via della geografia. La svolta verso la vinificazione in bianco di uve rosse arrivò probabilmente per motivi mercantili, economici, commerciali: i claret champenois non avrebbero mai potuto essere di qualità veramente eccelsa come i vicini Borgogna, invece quelli bianchi evidentemente sì. È dunque possibile ipotizzare che se la Borgogna si fosse trovata altrove, molto più distante, in Champagne si sarebbe continuato a produrre anche vino rosso in buone quantità.

Ad ogni buon conto il vino bianco a quell’epoca mostrava un colore occhio di pernice, di un rosa delicato dovuto al breve contatto del mosto con le bucce dell’uva rossa. E fu su questo tema che Pierre Pérignon raggiunse il primo dei suoi leggendari successi in campo enoviticolo: la messa a punto di un protocollo per ottenere un vino veramente pulito e trasparente da uve nere e grigie (preferendo tuttavia il Pinot Noir al Meunier e al Fromenteau). In questa prospettiva organizzò vendemmie di soli grappoli sani, pigiature immediate di uve intere e spremiture soffici che scongiurassero la cessione dei polifenoli (antociani e tannini).

Dicevo dei Blanc de Noirs. Nonostante Pinot Noir e Meunier rappresentino il 72% dell’intera superficie vitata regionale, è più facile trovare sul mercato un Blanc de Blancs che uno Champagne da sole uve nere. Qual è il motivo? Probabilmente perché senza la presenza dello Chardonnay (portatore sano di freschezze, trasparenze ed energia) è più complicato ottenere una cuvée ideale per il grande pubblico. Perfino molti produttori di Bouzy, di Ambonnay, di Aÿ, dove il pinot noir gode di una stratosferica reputazione, usano sovente un po’ di uve bianche; cosa che per converso non avviene mai a Avize, a Cramant, a Mesnil-sur-oger, dove si va in bottiglia con un vino ottenuto solo da uve Chardonnay.

In definitiva parteggio per i migliori Champagne “neri” perché stanno proprio bene a tavola, sono versatili. Soprattutto dopo qualche anno di sughero esibiscono doti di pienezza, vinosità, “gamba” e respiro in sintesi dinamica (ovvero senza perdere vitalità gustativa): un mix ideale per accompagnare i piatti più impegnativi.

Per di più, i Blanc de Noirs mostrano qualcosa di irrisolto, di incompleto, di parziale, che stimola l’amatore. A volte sono complicati, si adombrano, si incupiscono: capita che la potenza superi la grazia, oppure che non si raggiunga equilibrio, oppure che il frutto possa apparire eccessivo, dimostrativo, e così via. Tuttavia a me le complicazioni piacciono, da morire. E dunque evviva i Blanc de Noirs di alto livello, quelli più selettivi, cortocircuito liquido che congiunge il cielo alla terra e il giorno alla notte.

 

 

 

 

 

 

Francesco Falcone

Nato a Gioia del Colle il 6 maggio del 1976, Francesco Falcone è un degustatore, divulgatore e scrittore. Allievo di Sandro Sangiorgi e Alessandro Masnaghetti, è firma indipendente di Winesurf dal 2016. Dopo un biennio di formazione nella ciurma di Porthos, una lunga esperienza piemontese per i tipi di Go Wine (culminata con il libro “Autoctono Si Nasce”) e due anni di stretta collaborazione con Paolo Marchi (Il GiornaleIdentità Golose), ha concentrato per un decennio il suo lavoro di cronista del vino per Enogea (2005-2015). Per otto edizioni è stato tra gli autori della Guida ai Vini d’Italia de l’Espresso (2009-2016). Nel 2017 ha scritto il libro “Centesimino, il territorio, i vini, i vignaioli” (Quinto QuartoEditore). Nell’estate del 2018 ha collaborato alla seconda edizione di Barolo MGA, l’enciclopedia delle grandi vigne del Barolo (Alessandro Masnaghetti Editore). A gennaio 2019, per i tipi di Quinto Quarto, è uscito il suo ultimo libro “Intorno al Vino, diario di un degustatore sentimentale”.  Nel 2020 sarà pubblicato il suo libro di assaggi, articolazioni e riflessioni intorno allo Champagne d’autore. Da sei anni è docente e curatore di un centinaio di laboratori di degustazione indipendenti da nord a sud dell’Italia.


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