Vincenzo Cammerucci, origini e approdi di un grande cuoco7 min read

“Si dice che l’entusiasmo sta alla vita come il colore sta al dipinto. Ecco, Vincenzo va addirittura oltre, perché è un uomo entusiasta della vita stessa. Della vita così com’è, con le sue tempeste e i suoi arcobaleni”.

 Se è vero che certe storie non possono prescindere dai luoghi in cui si sviluppano, è altrettanto vero che in rari casi essi ne diventano protagonisti al pari degli uomini che li hanno popolati. L’indimenticato Bistrot  Claridge di Cesenatico è uno di questi. Uno spazio minuscolo, costretto nella bagarre della spiaggia romagnola, in cui si consumò uno dei tanti miracoli gastronomici regionali, ma questa volta senza ambizioni stellari e senza sfacciati riti museali. Tutt’altro.

In quell’ombelico nascosto in una delle tante anonime strade della Riviera, al numero 55 di Via dei Mille, un piccolo gruppo di amici/imprenditori/ristoratori svoltò drasticamente contromano, una svolta per così dire radical-chic, mischiando alto e basso, il locale costoso e la trattoria abbordabile, la ricercatezza borghese e la frugalità francescana, in un impasto che anticipava i tempi di almeno un decennio e che oggi è lievitato a dismisura un po’ ovunque.

Questo era il Bistrot Claridge, rifugio di un’intera comunità di buongustai persuasa da quell’ambiente raffinato ma senza smancerie, piccolo senza essere soffocante, privato eppure mai elitario né snob. La musica era scelta con gusto, i piatti creativi avevano un forte legame con il territorio – e con il mercato del giorno –  e la scelta dei vini, aliena agli svolazzi e alle iperboli, appariva in sintonia con la tavola.

Fa specie pensare che a due passi dalla spiaggia più distratta d’Europa si andava involontariamente costruendo uno dei prototipi di ciò che da qualche anno è diventato di culto altrove, in Francia ad esempio. Ma così è stato, in qualche modo.  Il Bistrot  Claridge di Cesenatico era in piccolo quello che Chez l’Ami Jean, Le Chateaubriand, Le Baratin, Le Saturne, Yam’Tcha e Spring sono stati e sono per Parigi: gastro-bistrot frequentatissimi dai grandi appassionati di cucina.

Quel locale chiuse i battenti nel 1996, dopo sole cinque stagioni di attività, lasciando un segno forte nella mia memoria di giovane curioso. Il merito fu soprattutto di Vincenzo Cammerucci, che della comitiva societaria era il cuoco e il leader, ma anche l’uomo immagine: non ancora quarantenne, bello come un attore di fotoromanzi, occhi color pervinca e chioma folta, lo charme ferormonico di Vincenzo attraeva donne e uomini sensibili al fascino maschile almeno quanto i suoi piatti d’autore.

E pensare che da ragazzo era timidissimo, parlava poco e amava isolarsi per guardare le nuvole. Ultimo di cinque figli di una numerosa dinastia di contadini marchigiani, ricorda sempre con emozione il suo passato: <<a tavola si era sempre in venti, nonni e zii al seguito, le verdure dell’orto, le bestie allevate in cascina. C’era poco da mangiare, ma era tutto tremendamente saporito>>.

Magro, con le braccia sottili, le gambe smilze e i capelli lunghi che gli scendevano sulla fronte, Vincenzo aveva l’aria del ragazzo responsabile, serio e disciplinato a scuola, dove parlava solo se interrogato. E ogni giorno, alla fine delle lezioni, aiutava con l’orto i suoi familiari. È in quel contesto parecchio evocativo, forse sceneggiato da Pupi Avati e Ermanno Olmi e ambientato nella campagna di Recanati, a metà tra il Conero e il Piceno, tra l’Adriatico e le colline, che impara ad apprezzare la fragranza e l’incisività dei sapori, due delle principali qualità che vengono riconosciute alla sua cucina. La terza è la perfezione tecnica. Cammerucci è titolare di fondamentali cristallini e nelle sue mani c’è il talento di madre natura.

Mauro Uliassi, chef tra i più celebri d’Italia, in un’intervista raccolta da Marco Bolasco qualche anno fa, considera Vincenzo un fuoriclasse e colui <<che più di tutti ha influenzato lo stile e la tecnica dei miei piatti, in particolare quando cucinava alla Grotta di Brisighella, tra il 1988 e il 1990>>. Un po’ di anni prima, nel 1986, Cammerucci approdava in via Bonvesin della Riva, alla corte di Gualtiero Marchesi: arrivò a Milano in età adulta e ormai professionalmente navigato <<con me c’erano Carlo Cracco e Davide Oldani alle prime armi: facevo loro da chioccia>>, eppure dopo un anno ne sarebbe uscito folgorato, <<soprattutto dal punto di vista intellettuale>>.

È dopo l’esperienza milanese che la sua cucina assume l’attuale fisionomia, spogliandosi definitivamente del surperfluo e puntando alla leggerezza, all’armonia, alla semplicità dei risultati e dei sapori, senza però rinunciare alle intuizioni, ai contrasti e a un costante rapporto dinamico tra mare e terra.

Nel 1997, a quarant’anni suonati, veste i panni dello chef-patron e in breve tempo porta il suo nuovo ristorante, inserito nella lussuosa cornice dell’Hotel Lido Lido di Cesenatico, ai vertici della proposta regionale, ottenendo nel 2001 una meritatissima quanto tardiva stella  Michelin.

L’ennesimo testacoda della sua carriera è invece più recente e lo conduce probabilmente all’approdo definitivo: nel 2011 chiude il suo locale stellato e torna alle origini, alla campagna, alla natura, alla cucina il più possibile libera da sovrastrutture. Lo fa con la complicità di Milena Zanfini, sua compagna anche nella vita: insieme aprono CâMí, forse  l’agriturismo più glam d’Italia, insediato a due passi da Milano Marittima, nell’entroterra che costeggia il corso finale del fiume Savio, in una pianura salmastra ricca di orti, campi di girasole e alberi da frutto.

In meno di otto mesi un vecchio casolare malconcio è stato ristrutturato e trasformato in un ristorante bellissimo, lindo, luminoso, concepito con grazia. Fuori è tutto un elogio di lavande ed erbe aromatiche, di peschi e pomodori, di prugne e melanzane; all’interno i tavoli sono ampi e ben distanziati, gli oggetti scelti in armonia con il contesto, e così nulla appare fuori posto.

Soprattutto Vincenzo, che qui si sente a casa, torna alla poesia marchigiana e appare più che mai un uomo realizzato. Non è più da tempo un ragazzino esile e taciturno, ma conserva la tempra di sempre e il piglio del lavoratore infaticabile. A differenza di quello che è successo a tanti colleghi di uguale talento, Vincenzo ha scelto di consumare la sua maturità a stretto contatto con la stufa e con le pentole, percorrendo la strada della normalità, senza abbandonare la stella polare del lavoro vero.

La cosa più rilevante per un cuoco è cucinare: un cuoco deve soprattutto cucinare. Si può cucinare bene, male, in modo originale oppure scopiazzando qua e là, ma un cuoco ha l’obbligo di esprimere la sua sensibilità cucinando. Per Cammerucci questa pratica è un dovere, una petizione di principio, un precetto inderogabile. Una scelta di vita.

E visto che il talento a volte si adatta alle circostanze (si badi bene: non è un segno di debolezza o di volubilità, ma di di umiltà), le sue priorità oggi sono tutte qui, sull’argine destro degli ultimi scampoli del Savio ormai prossimo alla foce, con l’orto da governare e i suoi clienti da coccolare con una cucina libera, pulita e sana.

Clienti che a ben vedere sono doppiamente fortunati: perché insieme a una felice esperienza gastronomica si portano a casa pure il sorriso di una persona entusiasta*.

Si dice che l’entusiasmo sta alla vita come il colore sta al dipinto. Ecco, Vincenzo va addirittura oltre, perché è un uomo entusiasta della vita stessa. Della vita così com’è, con le sue tempeste e i suoi arcobaleni**.

 

*Deve essere vero che per circostanze misteriose talvolta si formi una felice triangolazione leopardiana tra l’uomo, la terra e l’infinito. È ciò che probabilmente sta accadendo intorno a Vincenzo Cammerucci, poeta dei fornelli nato a Recanati il sette febbraio del millenovecentocinquantasette. (ff)

**Deve essere vero anche che i grandi amori sono eternamente in cammino. Almeno finché si udirà il canto delle cicale nei pomeriggi d’estate. (ilysmvv)

Francesco Falcone

Nato a Gioia del Colle il 6 maggio del 1976, Francesco Falcone è un degustatore, divulgatore e scrittore. Allievo di Sandro Sangiorgi e Alessandro Masnaghetti, è firma indipendente di Winesurf dal 2016. Dopo un biennio di formazione nella ciurma di Porthos, una lunga esperienza piemontese per i tipi di Go Wine (culminata con il libro “Autoctono Si Nasce”) e due anni di stretta collaborazione con Paolo Marchi (Il GiornaleIdentità Golose), ha concentrato per un decennio il suo lavoro di cronista del vino per Enogea (2005-2015). Per otto edizioni è stato tra gli autori della Guida ai Vini d’Italia de l’Espresso (2009-2016). Nel 2017 ha scritto il libro “Centesimino, il territorio, i vini, i vignaioli” (Quinto QuartoEditore). Nell’estate del 2018 ha collaborato alla seconda edizione di Barolo MGA, l’enciclopedia delle grandi vigne del Barolo (Alessandro Masnaghetti Editore). A gennaio 2019, per i tipi di Quinto Quarto, è uscito il suo ultimo libro “Intorno al Vino, diario di un degustatore sentimentale”.  Nel 2020 sarà pubblicato il suo libro di assaggi, articolazioni e riflessioni intorno allo Champagne d’autore. Da sei anni è docente e curatore di un centinaio di laboratori di degustazione indipendenti da nord a sud dell’Italia.


LEGGI ANCHE