“Mi tengo stretto il mio sonno di carta velina perché così posso leggere dentro i miei sogni. E godermi ancora quel sorriso”
Nato sotto il segno di un Maestro pacato e silenzioso come Mario Cortevesio e ispirato – come tanti a Montalcino – dal talento rabdomantico del taciturno Giulio Gambelli, il vulcanico Alessandro Mori è invece uomo di personalità dirompente, che sente l’urgenza di urlare i punti cardine della sua storia, delle sue idee, dei suoi metodi. E fa bene, visti i risultati raggiunti.
Senese con alle spalle una facoltosa dinastia di avvocati di valore, determinato e infaticabile, ambizioso e anche un po’ presuntuoso, da sempre punta in alto senza dimenticarsi del basso, vola con la fantasia strisciando nella trincea dell’artigianato, fa cose autentiche provocando sul suo cammino fraintendimenti, voltafaccia, conversioni e tante adesioni.
Alessandro, che non ha mai abbandonato la barca della tradizione nemmeno quando quel mare era in burrasca, ha vissuto prima l’emarginazione più frustrante e poi il successo più clamoroso, fino a giungere nel rango rarefatto dei classici senza tempo, al pari dei Biondi-Santi, dei Costanti, dei Soldera, dei Molinari, dei Palmucci.
È dal millenovecentoottanta – appena diciannovenne – che propone un Brunello di taglio sartoriale, fedele al mandato del suo territorio e in piena sintonia con le esigenze di trasparenza dell’uva sangiovese.
Attenzione, però. Perché i Brunello del Marroneto, portabandiera del genius loci nordmontalcinese, rischiano ancora di essere mal interpretati, anche se per nuove ragioni. Si sbaglierebbe infatti a supporre quei rossi di carattere esplicito come comprensibili senza sforzo.
Occorre infatti abituarsi a liquidi del tutto vocati alla profondità: i vini del Mori sono come archeologi che non smettono mai di scendere lungo la corda tesa degli abissi, che cercano e scavano in direzione di chissà quale approdo, sperando forse di dissotterrare il cuore inaccessibile di un terroir pensile che fa da ponte tra Montalcino e Montosoli.
Personalmente nella gamma del Marroneto ci sento qualcosa del ritmo sapido di Case Basse, della florealità di Poggio di Sotto, del rilievo tannico/agrumato del Greppo, ma con una cospicua dose di “innafferrabile“ che mischia le carte, di intimità inquiete a me non sempre svelabili, di analogie chiaroscurali che non so bene da dove arrivino: forse dalle luci o forse dalle ombre di quel luogo meraviglioso, da quelle sabbie o da quei castagni, dalle madonne pregate o dalle grazie sognate.

di Alessandro Mori
Fatto sta che qui non voglio avventurarmi in un articolo di approfondimento sulla carriera di Alessandro Mori. Della sua storia più che trentennale ne hanno scritto già in tanti, perché in tanti hanno avvertito l’urgenza, nell’ultimo decennio, di analizzarne il percorso, di descriverne lo stile. Io adesso non me la sento.
Il mio è solo un breve elogio di un Brunello davvero sorprendente bevuto al Marroneto qualche giorno fa, al crepuscolo di un freddo giovedì di un autunno che finalmente fa promesse nevose e forse le mantiene.
Si tratta del 1989. Bottiglia di annata tremendamente fragile che oggi appare quasi epica nella sua sottile resistenza, malinconica nella sua grazia ossuta: vino cechoviano con il ritmo di Hemingway, per dire.
Già bevuto più di un decennio fa, ha letteralmente cambiato pelle in questi anni, al punto da apparire una cosa diversa, peculiare, sorprendente, non replicabile.
Così tenue, ora, da sembrare fragile come neve al sole; così leggiadro che il palato lo sfiora, non lo tocca; così nudo da svelare cromosomi da bianco, tonalità agrumate, mineralità iodate, sbuffi rôtì che rimandano a luoghi ben più nordici, parecchio lontani da qui.
Eppure con il passare del tempo, con un po’ di confidenza, con il calore della mano, con l’aiuto dell’ossigeno, l’originalità dei modi non vieta al bevitore di sentirsi a casa.
Una casa tutt’altro che accogliente, anzi quasi una capanna, una tana, ma in cui c’è tanto sentimento. E dove ti senti al sicuro.