Un approccio filosofico al vino10 min read

Questa volta non siamo noi di winesurf a scrivere qualcosa, ma lasciamo il campo ad un grande nome e ad un progetto enoico ed editoriale di cui in futuro si sentirà parlare. Ci riferiamo a Roger Scruton, filosofo inglese, che sul nuovissimo Tacuinum Vitineum, parla in maniera chiara e illuminante del rapporto tra l’uomo, la società  ed il vino. Come detto il brano è tratto da Tacuinum Vitineum, una nuovissima creazione editoriale che parte dalla voglia di parlare in maniera veramente diversa di vino che anima Gianni Mollo e Giancarlo Montaldo. Il primo, industriale del settore motociclistico sta iniziando, da vero e proprio appassionato, a produrre vino nelle sue amate colline del Roero. Il secondo non c’è bisogno di presentarlo. Da sempre nel mondo del vino, Sindaco di Barbaresco, Presidente dell’omonima Enoteca Regionale, grande comunicatore. Assieme hanno creato questa rivista che fa parlare di vino grandi pensatori fuori dal piccolo mondo del vino: un punto di vista diverso che ci ha conquistato sin da subito. Siamo quindi onorati di pubblicare questo piccolo saggio del professor Scruton.

 

  
Un approccio filosofico al vino

 

Roger Scruton

 

 

Nel corso della storia, gli esseri umani hanno reso la vita più sopportabile grazie all’assunzione di droghe. E, mentre le società hanno opinioni diverse su quali droghe dovrebbero essere assecondate, quali tollerate e quali proibite, vi è stata convergenza di opinioni in merito ad un ruolo assolutamente cruciale: l’assunzione di droghe non deve minacciare l’ordine pubblico. La pipa della pace degli Indigeni americani, come il narghilè nel Medio Oriente, rappresentano un ideale di intossicazione sociale, nel quale un buon comportamento, rapporti affettivi senza complicazioni e pensieri sereni confluiscono nell’essere umano quando si fuma tutti insieme. Alcuni pensano alla cannabis in questi termini, anche se la ricerca relativa al suo effetto neurologico getta una luce diversa e più inquietante sul suo significato sociale.
 Il problema in questione, comunque, non è la cannabis ma l’alcool, che produce un effetto istantaneo sul coordinamento fisico, sul comportamento, sulle emozioni e sulla comprensione. Il suo carattere distruttivo spiega chiaramente perché Maometto, esasperato dall’incapacità dei suoi fedeli di rimanere seduti in silenzio ad ascoltarlo mentre declamava, giunse infine alla conclusione di vietare ai fedeli di bere vino che, ciò nonostante, si premurò a prometterlo loro in paradiso. Un visitatore proveniente da un altro pianeta, osservando i russi sotto l’influenza della vodka, i ciechi nella morsa dello slivovitz, o i rozzi montanari americani ubriachi fradici di whisky di segala, sarebbe sicuramente favorevole alla loro proibizione. Ma come sapete, una proibizione non funziona. Poiché, se talvolta la società è spaventata dalle droghe, è spaventata in uguale misura dalla loro mancanza. Senza il loro aiuto ci vediamo come realmente siamo, e nessuna società umana può basarsi su di una visione così sconfortante. La necessità di droghe è quindi profondamente radicata nella condizione umana e tutti i tentativi di vietare le nostre abitudini sono destinati a concludersi con un fallimento.
Gli antichi avevano trovato una soluzione al problema dell’alcool, che era quella di inserire la droga in rituali religiosi, trattarla come l’incarnazione di una divinità ed emarginarne il comportamento distruttivo in quanto opera della divinità e non dei fedeli. Questa fu un’ottima mossa in quanto è molto più facile riformare una divinità che non un essere umano. Gradualmente, disciplinato da rituali, preghiera e teologia, il vino fu allontanato delle sue origini orgiastiche per diventare dapprima  un’offerta solenne agli dei dell’Olimpo e poi l’eucaristia Cristiana – quel breve incontro con la salvezza che ha il perdono come traguardo ultimo.
 Ma nell’antichità non vi era soltanto una soluzione religiosa. Vi è anche il simposio secolare. Invece di escludere il bere dalla società, i Greci costruirono un nuovo genere di società che ruotava intorno al bere. Ovviamente non il bere molto alcoolico come vodka o whisky, ma l’assumere bevande  forti quel tanto che bastava a consentire una graduale perdita dei sensi e delle inibizioni – quel bere che ti fa sorridere al mondo e grazie al quale il mondo ti sorride. I Greci erano esseri umani e sarebbero stati fin troppo indulgenti con se stessi, come lo fu l’equipaggio di Ulisse nel palazzo di Circe. Anch’essi ebbero il loro periodo di proibizione, come narrato ne Le Baccanti di Euripide, dove si racconta la storia di Penteo, fatto a pezzi come punizione per aver bandito il dio del vino. Ma nel simposio essi scoprirono ciò che riesce a far emergere la parte migliore del vino e la parte migliore di coloro che lo bevono: ciò attraverso cui anche i timidi acquistano la padronanza di se stessi.  Questa padronanza di se stessi, la ricerca filosofica nel corso degli anni, è proprio l’oggetto di questo libro.
 Il simposio invitava il dio del vino a condividere un’area cerimoniale. I convitati, adorni di ghirlande di fiori, si abbandonavano, in due su un triclinio, appoggiati sul braccio sinistro, con il cibo disposto su bassi tavoli imbanditi davanti a loro. Schiavi solennemente riempivano le loro coppe versando da una caraffa comune, nella quale il vino era stato diluito con acqua in modo da rinviare quanto più a lungo possibile il momento dell’ebbrezza. I comportamenti, la gestualità e le parole erano rigorosamente calibrate, come in una cerimonia giapponese del the, ed i convitati si concedevano l’un l’altro il tempo per parlare, declamare versi, recitare o cantare, in modo che la conversazione fosse sempre un fatto comunitario. Uno di questi eventi, raccontato da Platone in versione un po’ abbellita, è ben noto a tutti gli amanti della letteratura come la scena dell’incontro tra Socrate e Alcibiade. 
Il Simposio di Platone vuol essere un tributo ad Eros. In realtà esso è un tributo a Bacco, ed illustra la capacità del vino, se usato in modo corretto, di collocare amore e desiderio ad una distanza tale da consentire di disquisirne.
 Il simposio dei greci era esclusivo e altamente privilegiato – vi potevano partecipare soltanto gli uomini e solo uomini appartenenti ad una determinata classe sociale. Ma il principio trova un’applicazione ben più ampia. Il vino è un qualche cosa che va ad aggiungersi alla società umana, a condizione che venga utilizzato per favorire la conversazione, e sempre che la conversazione resti civile e sia collettiva. Siamo sgomenti nel vedere la quantità sempre crescente di ubriachi nelle nostre strade cittadine, e molti sono indotti ad incolpare l’alcool delle intemperanze, in quanto l’alcool ne è, in parte, la causa. Ma l’ubriachezza pubblica, quella che portò al proibizionismo, nacque dal fatto che la gente beveva cose sbagliate nel modo sbagliato. Il bere sociale del vino, durante o dopo un pasto, nella piena consapevolezza del suo gusto delicato e della sua aura evocativa, raramente porta all’ubriachezza, ed ancor più raramente ad un comportamento sconveniente. Il problema del bere, di cui siamo testimoni nelle città britanniche, deriva dalla nostra incapacità di pagare a Bacco il giusto tributo. Grazie a TV, pop-music e calcio, i giovani non hanno più un repertorio di canzoni, poesie, argomenti o idee di cui discutere ed intrattenersi reciprocamente tenendo in mano un bicchiere.
Essi bevono per colmare il vuoto morale generato dalla loro cultura, e l’effetto del bere su di una mente vuota rende quel vuoto ancora più assordante.
 Non sono solo gli schiamazzi degli ubriachi che offendono in quel modo. Offensiva è anche la maggior parte delle riunioni conviviali. Gli ospiti parlano ad alta voce ed in modo egocentrico con i propri vicini, dieci conversazioni sono portate avanti  tutte insieme,  senza che nessuna di esse porti a nulla,  ed il rito di riempire il bicchiere  non è altro che un’occasione per afferrare e tracannare. Una buona bottiglia dovrebbe sempre essere accompagnata da un ottimo argomento e l’argomento dovrebbe essere oggetto di discussione intorno ad un tavolo con il vino. Come i Greci ebbero a confermare, questo è il modo migliore di affrontare problemi veramente seri, ad esempio se il desiderio sessuale ha come obiettivo l’individuo o l’universale (e qui sono in totale disaccordo con Platone), se l’accordo di Tristano è un accordo di settima semidiminuito, oppure se ci potrebbe essere una prova dell’ipotesi di Goldbach.  Conosciamo bene il parere medico secondo il quale uno o due bicchieri al giorno sono un toccasana per la salute,  ma conosciamo anche il parere contrario secondo il quale più di un bicchiere o due portano sulla strada della rovina. Consigli come questi sono importanti,  tuttavia meno importanti di quanto sembrano. Qualunque sia l’effetto del vino sulla salute fisica, esso ha comunque effetti decisamente più importanti sulla salute mentale – sia negativi, se scollegati dalla cultura del simposio, sia positivi, quando ad essa correlati. Già in America (in molte parti del paese, l’età in cui  l’alcool  è consentito è di cinque anni  superiore rispetto l’età consentita per il sesso),  le bottiglie di vino devono riportare una scritta di avvertimento per la salute. Se lo scopo è quello di educare il pubblico, ebbene non ci sono obiezioni, ma a condizione che questo avvertimento dica la verità (e questo che non lo fa di certo). Ma lo stesso scopo educativo dovrebbe persuaderci ad apporre scritte di avvertimento anche sulle bottiglie dell’acqua, ricordandoci le cupe condizioni di spirito che derivano dal berla e la necessità di prendersi del tempo per uscire dall’ipocondria e dare cibo e bevande  alla nostra anima.
 Il modo giusto di vivere è quello di godere delle proprie facoltà, sforzandosi di piacere e se possibile di amare i propri simili ed anche di accettare che la morte sia necessaria per se stessa ma anche una liberazione benedetta per coloro per i quali altrimenti potreste rappresentare un peso. I fascisti della salute, che hanno avvelenato tutto il nostro naturale piacere, dovrebbero, secondo il mio parere, essere riuniti e rinchiusi sotto chiave in un posto dove possano annoiarsi a vicenda, inflessibili con le loro futili panacee per la vita eterna. Tutti gli altri come noi dovrebbero vivere i propri giorni nel succedersi di simposi a catena, nei quali il catalizzatore sia il vino, i mezzi siano la conversazione e l’obiettivo una serena accettazione del nostro destino e la determinazione di non diventare un ospite sgradito. 
 Il vino è un eccellente accompagnamento al cibo; ma è un complemento ancora migliore del pensiero. E pensando con il vino potrete imparare non soltanto a bere, lasciandovi andare ai vostri pensieri, ma anche a pensare sorseggiando; bevendo premessa, argomento e conclusione in un unico profluvio pieno e soddisfacente, non solo comprendete un’idea, ma la adatterete alla vita che è in voi. Arriverete a comprendere ed a valutarne non soltanto la verità e la coerenza, ma anche il suo valore. Il vino è qualche cosa con cui vivete; lo stesso avviene con un’idea. E per quanto riguarda la vita, il vino è la prova di un’idea – la degustazione preliminare di un contenuto mentale che, se non assaggiato in tempo, potrebbe dimostrarsi un assoluto disastro.
 

 

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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