UGA, MEGA, MGA, AMW e l’insostenibile leggerezza del vino sempre più territoriale, unico e inconfondibile4 min read

Ho letto che in Cile i produttori vogliono, oltre che creare delle DOC, suddividere i territori sul modello delle grandi UGA chiantigiane per far risaltare meglio le caratteristiche dei vini, per far capire la territorialità dei loro Cabernet Sauvignon, Merlot etc.

A Malborough, in Nuova Zelanda,  dopo aver creato la AMW (Appellation Marlborough Wine), hanno suddiviso in territorio in zone diverse e creato una mappa evidenziando queste diversità, affermando che “l’AMW riconosce che Marlborough presenta una ricchezza di diversità stilistiche tra i nostri Sauvignon e queste nascono nei vini a seconda della loro provenienza. La mappa è uno strumento chiave per aiutarci a comunicare quel messaggio e a celebrarlo”.

Da noi oramai siamo avanti da tempo  su questa strada e mettendomi un po’ nei panni del Grillo Parlante rompicoglioni mi sono venute fuori alcune riflessioni, che possono anche essere completamente sbagliate, ma che voglio comunque proporvi.

Piano piano il mondo del vino  sta andando verso una parcellizzazione dei territori, verso una suddivisione, in qualche caso quasi maniacale, di microterroir che producono microvini “assolutamente inconfondibili” (così recitano i produttori”) .

La sensazione, stranamente ben percepita da me pur essendo calvo, è che si stia cercando di spaccare il capello in quattro, ma in molti casi soltanto per provare a vendere di più, facendo quello che un tempo venne fatto con le  parole “Barrique”, “Cabernet Sauvignon” “Merlot”, “Autoctono” “tradizionale o innovatore”.

L’unicità del territorio è oramai sulla bocca di tutti e si riferisce sia a grosse doc che producono milioni di bottiglie (ma uniche per sapidità o per profumo di pinco o di pallino) al mezzo ettaro dove nasce un vino particolarissimo, diverso da tutti, anche da quello fatto nell’altro mezzo ettaro.

Siamo passati da mettere l’accento sul vitigno (autoctono o meno) a puntare esclusivamente sul territorio, unico artefice di quello che si trova in bottiglia anzi, della diversità che si trova in bottiglia.

Tutti guardano più o meno alla Borgogna e alla sua suddivisione che oramai detta legge e prezzi stratosferici. Tutti i produttori vorrebbero arrivare a quello ma molti non si ricordano che 40/50 anni fa la Borgogna era suddivisa  come oggi ma la stragrande maggioranza dei suoi vini faceva schifo, mentre a Bordeaux i Premier Gran Cru Classé, con i loro Gran Vin che venivano da parcelle diverse e da macroassemblaggi silenziosi, erano il punto di riferimento della qualità.

La Borgogna è cresciuta ed è quello che è adesso non perché è stata maggiormente suddivisa ma perché Henri Jayer (e non solo, ma tanto per fare un nome famoso) cominciò a prendere per le orecchie tanti produttori, cercando di fargli capire dove sbagliavano e cosa dovevano fare.

Allora cari produttori, prima di fare il vino unico, inconfondibile, figlio del territorio, fate il vino buono e se sarà veramente buono e voi siete persone serie e oneste, sarà giustamente territoriale.

Allora cari appassionati, prima di osannare la diversità di un pelo in un uovo, fatevi un’idea generale di cosa si produce in quella zona, delle sue reali caratteristiche e dopo, solo dopo, esaltate le diversità e le microzone.

Ogni denominazione importante, nessuna esclusa,  ha vini che sembrano nati a migliaia di chilometri di distanza e questo perché ci scordiamo la variante principe, ma che si prende in considerazione solo quando ci pare: l’uomo.

Per capire l’unicità di un vino non volgete solo lo sguardo alla vigna ma chiedete al produttore cosa fa in cantina e provate a pensare se quel prodotto unico e inconfondibile sarebbe uguale se fermentasse a temperatura più alta o più basse, macerasse di più usasse o non usasse lieviti autoctoni etc.

Poi sono il primo a dire che il terroir esiste, ma esiste se gli uomini che ci stanno sopra  lo vivono, lo convivono e lo condividono, dove c’è una comunità, tanto per citare Marx, con struttura e sovrastruttura che coincidono e vanno avanti assieme.

La mia paura attuale è invece che “unicità, terroir, caratteristiche inconfondibile e uniche” stiano diventando sempre più parole d’ordine, motivi per vendere e non per far crescere realmente il vino.

Prima viene il vino buono, fatto bene, con attenzione, impegno, serietà, coerenza  e bravura e poi viene il resto, ma state tranquilli che se quel vino ha questi imprinting alla sua nascita, è per definizione un vino territoriale.

Foto di Clker-Free-Vector-Images da Pixabay

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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