Provate a mettere assieme le idee di tre amici, uno che lavora a quattordici scalini da casa, l’altro facitore di innumerevoli discussioni in osteria e il terzo che a otto anni si era vestito da grappolo di Sorbara, uniteci le foto scattate con il cuore e (per fortuna) con il bicchiere in mano da un bravissimo fotografo, fate sviluppare il tutto dalla penna felice di un produttore di Erbaluce di Caluso e troverete uno dei libri più belli e appassionati che ho letto da quando giro nel mondo del vino.
“Tutti lo chiamano Lambrusco”, scritto da Camillo Favaro con le foto di Maurizio Gjivovich nasce da un’idea di Giulio Loi, Filippo Marchi e Antonio Previdi non solo per onorare un grande vino spesso considerato di serie B, ma per far capire quanto cuore, cervello, mani e bocca servano per produrre i Lambrusco.
I Lambrusco
Ho messo il plurale non a caso: di Lambrusco ce ne sono tanti ma su una cosa tutti i personaggi di questo libro sono d’accordo : il Lambrusco è di tanti tipi ma mai dolce!
Permettetemi un attimo di autoincensamento: correva l’anno 2003 ed ero curatore di una guida allora rivoluzionaria nel mondo del vino italiano. Erano i tempi dei vini monolitici, un tanto al chilo e noi fummo i primi a premiare un Lambrusco Grasparossa. Un vino che ricordo con gioia ancora oggi: non ti accorgevi di aver finito la bottiglia, immediato ma non banale anzi, con una grande personalità.
Forse un piccolo contributo a “sdoganare” il Lambrusco l’ho dato anch’io, mai quanto quello di Burton Anderson che firma la prefazione: lui il Lambrusco , quello buono, lo aveva conosciuto e ne aveva parlato addirittura nel 1987!
Se ci pensi bene è un libro strano: prima ci sono delle foto che parlano da sole e dopo gli incontri con i produttori che fotografano, ognuno dal suo punto di vista, il mondo del Lambrusco.
Foto che parlano e racconti che fotografano
E mano a mano che vai avanti con le foto che parlano e le parole che fotografano scopri un mondo, una storia fascinosa e rude allo stesso tempo.
Non può non affascinarti un vino che un produttore definisce “mare e pianura” un altro “che sa di libertà perché potevi berlo liberamente e non ti faceva male”. Non puoi non rimanere affascinato dalle varie scuole di pensiero che tra Modena, Carpi, Castelvetro e Sorbara, tra Salamino, Sorbara e Grasparossa vogliono definire l’unicità e nello stesso tempo le grandi diversità del Lambrusco. Non puoi non apprezzare le molte storie , immensamente diverse l’una dall’altra: dal produttore estremista a chi vende milioni di bottiglie nel mondo, dal campione di thai boxe convertito alla vigna a chi è figlio di un metodo e non di un territorio.
Qui viene fuori la ruvidezza, perché ogni storia che si dipana parla di sudore, di lotta, di successi e sconfitte, con alla base di tutto la terra, quella che “chi l’avvelena è uno stronzo!”, come afferma ad un certo punto un produttore. Questa terra, molta di pianura e in parte di collina, nebbiosa, afosa, solare, amata, è il filo conduttore che lega le vite di chi crea i Lambrusco.
Il filo conduttore
Scusate, ho sbagliato! Il vero filo che lega tutto si trova, di solito, a quasi un metro da terra e si chiama tavola, perché il Lambrusco è un vino da godere, da discutere, da apprezzare e da bere a tavola con la contentezza negli occhi.
Questo è forse il vero messaggio del libro: bevetevi un buon lambrusco, vino da pasto per antonomasia, gustatevelo con gli amici, con i piatti di tutti i giorni e sarete contenti.
Io sono stato contento nel leggere il libro, talmente contento che la sera a cena ho dovuto bere lambrusco e sono convinto lo farete anche voi.
Tutti lo chiamano Lambrusco, Fil Rouge editore, Piverone (To) 25€