Terracotta e vino: terre e vini da tutto il mondo7 min read

Per dare giusto risalto ad una manifestazione sempre molto interessante abbiamo pensato ad una articolo a quattro mani: inizia Barbara Amoroso e raccoglie il testimone Alessandro Bosticco

La terra vista dalla Terra

Dopo la pausa pandemica è tornata la biennale sul vino in terracotta, La Terracotta e il Vino, alla Certosa di Firenze il 4 e 5 giugno scorsi. Duecento vini e 60 espositori da tutto il mondo in un evento unico nel suo genere che raggruppa vini vinificati e affinati in anfore, giare, Talhe, qvevri provenienti da Georgia, Armenia, Portogallo, Spagna, Croazia, Istria, Francia e una vasta scelta di aziende italiane. Organizzato dall’omonima Associazione culturale La Terracotta e il Vino, sponsorizzata dall’omonima fornace del cotto e da Artenova Terrecotte di Andrea e Leonardo Parisi, la biennale è stata occasione per rispondere a numerose domande su questo materiale: siamo di fronte all’ennesima occasione di narrazione di un prodotto, o esistono effettive differenze organolettiche nei vini che incontrano la terracotta?

Per quanto il materiale di affinamento fosse lo stesso per tutte le aziende presenti, vitigni e territori completamente diversi, oltre che a tradizioni, tecniche e filosofia, ha sottratto parametri di confronto equi. In soccorso ai molteplici quesiti che il degustatore seriale si pone in fase di assaggio è arrivato un convegno diviso in tre parti cospicue e ricche di contenuti:

Vitigni, vini rari e antichi, le unicità dell’Italia enoica a cura di Ivano Asperti

I racconti di Talha, l’antica risposta del Portogallo al vino in anfora a cura di Paul White

Monitoraggio dei parametri chimici, fisici e sensoriali di un vino Sangiovese affinato un anno o in bottiglia, in terracotta, in cemento rivestito in resina ipossidica, in cemento grezzo, in acciaio e legno grande e piccolo a cura di Valentina Canuti, Monica Picchi e Francesco Maioli dell’Università di Firenze

Ufficialmente le parti del convegno erano due, ma come potete dedurre dalla ricchezza di informazioni che ci hanno fornito, tre sarebbero state meglio per noi e forse in tre momenti diversi per dare modo di fruire ogni dato senza un calo di attenzione nelle quasi 3 ore ininterrotte di esposizione dei relatori. Detto questo, di certo non il solito convegno anzi, in cui siamo passati da un excursus sul nuovo censimento dei vitigni autoctoni italiani (l’ultimo risaliva a 50 anni fa) che oggi beneficia nella tecnica di analisi del DNA e sta rivelando che molti vitigni dai nomi diversi sono in realtà della medesima famiglia (v. bombino bianco e pagadebit). In numeri: nel 1970 erano recensiti 172 vitigni italiani; oggi sono oltre 600 e ogni giorno ne emergono di nuovi, ha spiegato Asperti.

Il giornalista americano Paul White invece ci ha condotto lungo un viaggio storico e geografico del vino in Talha, tra date e foto che fanno venire voglia di fare le valige e andare a vedere con i propri occhi le cantine dove i contenitori di terracotta vengono interrati. Un viaggio nella storia del vino, che porta a riflettere sull’unicità del prodotto, capace di essere abbastanza simile in tutto il mondo da potere essere paragonato e indagato secondo parametri comuni, un fil rouge tra popoli e nazioni.

E infine dati e analisi poco romantici e molto pratici (utili nella bolgia di degustatori e sommelier in cui tutti ci infiliamo) dove i profumi e i caratteri del sangiovese affinato nei 7 contenitori diversi, si sono tradotti in numeri, funzioni matematiche, schemi e colori, sollevandoci per una volta dalla nostra soggettività. I dati più macroscopici? Terracotta e cemento grezzo si comportano in modo molto simile quando si tratta di ossigenazione e non cessione di aromi ma la terracotta assorbe più acqua rispetto al cemento. Un dato sensoriale rilevato ai banchi d’assaggio ha avuto riscontro nei numeri dell’Università di Firenze: molti vini avevano una chiusura amaricante stile vitigno aromatico. I dati dicono che, nei limiti di legge, il vino affinato in terracotta ha un maggiore contenuto di metalli, perciò che sia interpretato come amaricante o lieve sensazione metallica (parliamo di inezie da degustatore nerd, i vini erano piacevoli) le due cose sono collegate.

Terra cotta e terra cruda

Un giro tra i tavolini dei vignaioli presenti ha dato subito l’idea delle molte variabili che concorrono al profilo dei vini in anfora, a cominciare dal contenitore stesso: terra di origine, dimensione, lavorazione e trattamento; utilizzo per fermentazione e/o macerazione e/o affinamento. E poi tutto il resto che determina comunque le caratteristiche del mosto d’origine, ad esempio il ruolo della terra… cruda. Quella dove le viti estendono le radici, sventagliata alla Certosa su depliant e tablet o addirittura messa in mostra in barattolo sui tavolini, descritta da molti quasi con devozione. Il racconto di chi ci versava i vini è stato denso ed efficace, rivelandosi più importante che mai.

C’è da dire che dal punto di vista commerciale partecipava chi produce tutto in orcio e chi solo un’etichetta o due. Così Elena Fucci offriva all’assaggio il suo Titolo in anfora da una bottiglia differente nel colore da quella dell’Aglianico del Vulture “standard”. Peraltro quest’ultimo era assente per cui il confronto di gusto andava fatto a memoria. Dal tavolino de La Piana (isola di Capraia) dopo l’assaggio da anfora sono venuto via coll’elegante ma tenace persistenza del loro Crispino, Aleatico passito che invece ha trascorso pochi mesi in acciaio senza toccare terra. Un altro isolano, Antonio Arrighi dall’Elba, a ragione continua a far parlare di sé per il mitico Nesos, che prima di andare in terracotta è il risultato di uve tenute sommerse in mare. Se n’è parlato e se ne riparlerà, intanto Antonio tiene il resto del vino per lo più in acciaio. Chi invece sembra credere in tutto e per tutto nell’anfora è Elena Casadei, figlia d’arte (Castello del Trebbio), che alla Certosa ha sfoderato un bel numero di vini di grande personalità, giocati con sapienza su vitigni e territori diversi: qui sono stato preso in contropiede dal Cannonau, tannico quanto e più del Syrah. Tra gli altri tavolini (non li ho visitati tutti), ottima anche la serie anforata di Cascina Corte di Dogliani, che affianca quasi in parallelo la linea convenzionale. Schietti e varietali, decisamente convincenti, si sono rivelate le ultime uscite di Nascetta, Barbera e Nebbiolo targati Langhe come pure il Pirochetta Amphorae per la docg di zona.

E non si poteva perdere l’occasione di assaggiare alcuni forestieri, a cominciare dai produttori della culla storico-geografica dell’enologia. Dunque Zorah Wines dall’Armenia dove le anfore (interrate per te quarti) le chiamano karas: usano vitigni dai nomi esotici, come Voskéat, Chilar o Areni (quest’ultimo presentato come l’uva tracciata nel sito eno-archeologico più antico del mondo, a Vayotz Zor). Profili di gusto lineari e convincenti, nemmeno tanto esotici come i nomi potrebbero  suggerire. Due le presenze georgiane, dalla zona di Telavi: Marani e Mosmieri, anche queste con l’utilizzo dei loro autoctoni, i già più conosciuti rkatziteli, mitzvani e saperavi. L’azienda Ghira, dalla vicina Croazia, ha presentato due valide Malvasia Istriana in terracotta di Impruneta, una ’19 molto sapida e una bella vendemmia tardiva ’18 con attacco morbido e finale asciutto ma comunque aromatico.

L’impressione generale è che la variante anfora, dalla storia antichissima, sia un meme destinato a diffondersi ulteriormente: il ventaglio organolettico è largo, e ci sono margini per ulteriori esperimenti. Indubbiamente un contenitore così, dall’estetica affascinante, può essere anche un sofisticato strumento di marketing. E in questo il Nesos non è solo: quanto a esclusività abbiamo saputo dal professor White di un vino dal timbro archeologico, volto a riprodurre il gusto della “sua” Talha. Hertade do Rocim, probabilmente la più grande azienda presente alla Certosa, lo ha messo in commercio in 650 bottiglie sui mille euro l’una. Esaurite, e c’è da scommettere che le vedremo a qualche asta. Per tiratura limitata non scherza nemmeno il Pietre Levate, Aglianico prodotto a Ottati nell’entroterra salernitano con vinificazione in anfora. Ho avuto la fortuna di assaggiarlo qui a La Terracotta e il Vino e devo dire che è impressionante per potenza  quanto per freschezza, peccato che sia un giocattolo sulle 500 bottiglie.

La terra vista dalla Terra” è di Barbara Amoroso Donatti, “terra cotta e tera cruda” è di Alessandro Bosticco

Redazione

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