Sulla tradizione a Barolo8 min read

  Il mio battesimo in Langa fu nel novembre del 1999. Il primo ricordo: l’emozionante colpo d’occhio delle colline tappezzate dai colori delle foglie autunnali. Il secondo: la personalità dei vignaioli incontrati: Giorgio Boschis della Borgogno a Barolo, Domenico Clerico a Monforte e Franco Massolino a Serralunga. Tre barolisti, tre storie, tre stili differenti: dalla tradizione senza compromessi all’innovazione spinta, fino a una più meditata classicità.

Da allora sono sfilati vent’anni e un centinaio di produttori conosciuti personalmente, eppure solo ora sento di cominciare ad avere una prima visione d’insieme, a poter contare su interlocutori con cui confrontarmi, a maturare delle convinzioni. Convinzioni tutt’altro che granitiche, perché il Barolo è un vino così complesso da non ammettere pregiudizi e certezze scientifiche; così imprevedibile nella sua curva evolutiva da sorprendere e spiazzare perfino gli assaggiatori più colti.  

Devo a Alessandro Masnaghetti, critico tra i più autorevoli in Europa, molte delle cose che del Barolo conosco. Per dieci anni, dal 2005 al 2015, mi ha insegnato molto del possibile su una denominazione tra le  più complesse da interpretare, offrendo il suo talento e la sua esperienza di degustatore alla comune causa della consapevolezza critica. 

 Infine il mio pensiero va ai patriarchi del Barolo, che in pochi ricordano ma a cui tanto (forse tutto) deve la denominazione: Emilio Pietro Abbona, Cesare Borgogno, Arturo Bersano, Giuseppe Bressano, Giovan Battista Burlotto, Giuseppe Cappellano, Giacomo Conterno, Paolo Cordero di Montezemolo, Tota Virginia Ferrero, Ferdinando Vignolo Lutati, Giulio Mascarello, Battista Rinaldi, Renato Ratti, Arnaldo Rivera, Giuseppe Tarditi e altri che di certo dimentico (e per questo me ne scuso).  

In occasione di una recente degustazione pubblica organizzata dall’appassionato gruppo dei Sommelierdellasera, tutta dedicata al Barolo della tradizione, ho provato a condividere qualche riflessione che mi fa piacere aprire ai miei lettori di Winesurf.

 Il testo che segue ne è una sintesi.  

 Traditio indica l’atto di tradere – da trans-dare -, con il significato di consegnare e anche di “trasmettere”.

Trasmettere un’eredità, una memoria, una notizia, una pratica, un insegnamento: e questo sia a parole che in forma scritta. Tradere significa dunque anche insegnare: tradere virtutem hominibus: “insegnare agli uomini la virtù” (Cicerone).

La preposizione trans indica “al di la”, “oltre”, con evidente riferimento sia ai limiti temporali (che in virtù della memoria tramandata è possibile sorpassare); sia ai limiti dello spazio fisico (che terrebbero la memoria imprigionata in piccolo ambito, se questa non venisse trasmessa); sia ai limiti dell’esperienza soggettiva di colui che, possedendo una conoscenza, la condivide con altri mediante la trasmissione.

La Tradizione presuppone un dare e un avere, attraverso la custodia e l’elaborazione di ciò che viene ricevuto e consegnato. Tradizione è parola transgenerazionale, poiché mette in connessione uomini e donne di diverse epoche, che così si scambiano – in differita – informazioni, idee, consuetudini e conoscenze con ancestrale complicità.

Tornando al vino, oggetto del nostro lavoro, non occorre un enorme sforzo di elaborazione per intendere che di una bottiglia è trasmissibile ogni cosa: da quali uve è originata; in quali condizioni geografiche, geologiche, climatiche, orografiche si trovano le vigne che quelle uve hanno portato a maturazione; come quelle uve e quelle vigne sono state governate; come quel liquido è stato vinificato, maturato, affinato, bevuto, venduto, valutato. Una semplice scheda tecnica redatta oggi, tra cent’anni consegnerà alle generazioni future un protocollo sui cui indagare, così che nel 2120 si potrà studiare la tradizione del 2020. Una figata!

È bene tuttavia ricordare che parlando di vino, l’aggettivo “tradizionale” rivendica un doppio significato. Da un lato quello più dispregiativo, usato per indicare vini remoti e passati, ostili nei confronti di ciò che è godibile, immediato, universale. Dall’altro quello più consolatorio e retorico, che si presta ad infondere nel consumatore un senso di sicurezza e di stabilità, evocando la romantica immagine del buon tempo passato che si mette di traverso al cattivo tempo futuro. Occorre allora essere scettici con la visione più manichea che la parola “tradizione” porta con sé, poiché esistono buoni vini innovativi e modesti vini tradizionali, e naturalmente viceversa.

Per quanto riguarda il Barolo, la prima cosa che va sottolineata è che la “tradizione” da quelle parti non è sinonimo di vini fuori dal tempo, ma di vini che non intendono smarrire certe abitudini produttive che da un secolo e mezzo caratterizzano la terra, la comunità, la storia e le denominazioni di Langa. L’aspetto più attraente dei Barolo tradizionali autentici è che il tempo non lo ignorano, ma lo attraversano, che è cosa ben diversa. Si tratta di vini che hanno cuore non tanto il passato, quanto le radici; si tratta di vini fatti da donne e uomini che conoscono le abitudini dei luoghi che vivono; si tratta di vini per realizzare i quali sono state scelte tecniche che rispettano i valori dell’esperienza e della testimonianza.

La tradizione in Langa è certamente conservatrice, ma non in senso museale, semmai in senso dinamico, poiché raccoglie e protegge consuetudini che ogni generazione, non senza una preziosa rielaborazione, trasmette alle generazioni successive. La rielaborazione è decisiva: la cultura è insita nelle persone e pertanto vi è ogni volta una fisiologica personalizzazione della pratica, di genitore in figlio.

I vini tradizionali autentici non sono sinonimo di ottusità e di passato, ma di identità e di storia, valori sempre più rari nel mercato globalizzato. In Langa è tradizionale quel vino che ha forti legami con la memoria. Ed è un vino che somiglia alla gente di Langa: generoso ma trattenuto, di tempra forte, alieno agli eccessi e alle moine.

Il Barolo tradizionale miscela calore e durezze, in sintonia con chi lo produce. C’è in esso qualcosa di nobile e di villano, in cui la classe non esclude la ruvidezza; in cui la grandezza non si dispiace di un certo provincialismo. 

In Langa è tradizionale quel Barolo che appare ostinato e contrario, concepito da vignaioli che per cultura prediligono vivere in simbiosi con la terra che lavorano, dando la priorità al particolare più che all’universale. Particolare che tuttavia può diventare universale, quando il vino è davvero buono.

In Langa è tradizionale quel Barolo che ha bisogno di tempo per esprimersi, di molto tempo. La tenacia è un elemento primordiale del Nebbiolo, ma anche la pastosa tannicità della Freisa, la calda vinosità del Dolcetto e l’acidità perentoria della Barbera possono rappresentare un pregio per chi ama il genere e al contempo un limite per chi predilige solo agilità, sorrisi e carezze.

In Langa è tradizionale quel Barolo che non fa nulla per dimostrarsi propizio al mercato, che dal mercato non si lascia fagocitare, tanto prima o poi, quel Barolo di indole austera e senza compromessi, incontrerà i suoi estimatori.

In Langa è tradizionale quel Barolo in grado di fondere come una cerniera epoche tra loro distanti e che, grazie alla trasmissione tra uomini, appaiono combacianti. Si parla dunque di Barolo mai fuori dal tempo, bensì dentro il tempo, un tempo che diviene così circolare, in  qualche modo.

 In Langa è tradizionale quel Barolo prodotto da vignaioli che a dispetto della stringente necessità di fare impresa, non hanno mai cancellato l’esperienza di chi li ha preceduti, non si sono mai allontanati dalla quotidianità del mestiere, non hanno mai cambiato idea sulle abitudini della loro professione.

In Langa è tradizionale quel Barolo che non può piacere a tutti. Di certo non è mai il Barolo che sfiora, ma è quello che tocca; non è una mano posata, ma una forte pacca sulle spalle; non è il Barolo che si trattiene e allo stesso tempo non è quello più concessivo; non è il Barolo internazionale e non è il Barolo delicato. Spesso è il Barolo più chiuso, lento, tannico, indisponente nei confronti di chi pretende innanzitutto morbidezza e immediatezza.

Di produttori tradizionalisti nella zona del Barolo ve ne sono ormai pochi: in tanti vanno iscritti alla scuola dei classici (la cui traiettoria stilistica vira in direzione della contemporaneità: è classico ciò che è sempre attuale) e altri a quelli dell’innovazione (eredi più o meno legittimi degli Altare, dei Voerzio, dei Clerico, dei Rivetti, citando quattro diversi archetipi di innovazione in Langa). Poi ci sono quelli che stanno in mezzo in modo più o meno saggio, più o meno consapevole.

Non sono mai stati tradizionalisti Beppe e Tino Colla, che invece si fanno portabandiera del classicismo del Barolo (e del Barbaresco); così come classici sono i vini di Barale, di Burlotto, di Brezza, di Brovia, di Cavallotto, di Aldo Conterno, di Roberto Conterno, di Mario Fontana, di Bruno Giacosa, di Marcarini, di Oddero e di Vietti, benché ciascuna delle aziende citate proponga Barolo di differente respiro, come è giusto che sia.

Rari sono allora coloro che scelgono la strada della tradizione. Flavio Roddolo di Monforte è tra questi, certamente. Teobaldo Cappellano a Serralunga, era un tradizionalista e con lui, Beppe Rinaldi a Barolo. Lo è l’anarchico Gianni Canonica e la gracile eppur tenacissima Maria Teresa Mascarello, anche loro nel paese di Barolo. Lo è l’aspro Lorenzo Accomasso a La Morra, i Roagna (padre e figlio) di Castiglione Falletto e lo è l’affabile Elio Sandri, di stanza alla Cascina Disa di Perno. Poi ci sono le esperienze di vignaioli come Silvano Bolmida e Claudio Fenocchio, alla Bussia di Monforte, che negli ultimi anni vanno esplorando la strada delle lunghissime macerazioni, in sintonia con quanto si faceva in passato (anche se per esigenze diverse da quelle attuali). E magari esistono altri tradizionalisti di ritorno, di cui oggi ignoro l’esistenza, ma che sono pronto a conoscere. Come immagino tanti di voi.

Francesco Falcone

Nato a Gioia del Colle il 6 maggio del 1976, Francesco Falcone è un degustatore, divulgatore e scrittore. Allievo di Sandro Sangiorgi e Alessandro Masnaghetti, è firma indipendente di Winesurf dal 2016. Dopo un biennio di formazione nella ciurma di Porthos, una lunga esperienza piemontese per i tipi di Go Wine (culminata con il libro “Autoctono Si Nasce”) e due anni di stretta collaborazione con Paolo Marchi (Il GiornaleIdentità Golose), ha concentrato per un decennio il suo lavoro di cronista del vino per Enogea (2005-2015). Per otto edizioni è stato tra gli autori della Guida ai Vini d’Italia de l’Espresso (2009-2016). Nel 2017 ha scritto il libro “Centesimino, il territorio, i vini, i vignaioli” (Quinto QuartoEditore). Nell’estate del 2018 ha collaborato alla seconda edizione di Barolo MGA, l’enciclopedia delle grandi vigne del Barolo (Alessandro Masnaghetti Editore). A gennaio 2019, per i tipi di Quinto Quarto, è uscito il suo ultimo libro “Intorno al Vino, diario di un degustatore sentimentale”.  Nel 2020 sarà pubblicato il suo libro di assaggi, articolazioni e riflessioni intorno allo Champagne d’autore. Da sei anni è docente e curatore di un centinaio di laboratori di degustazione indipendenti da nord a sud dell’Italia.


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