Stampa estera. En Magnum. Le Vin+Grand, n. 23: cosa non funziona nelle AOC francesi?5 min read

Come sempre, nel fascicolo, di grande formato, di En Magnum, c’è molta carne a cuocere, ma i due articoli principali, sono quello dedicato alla Montagne di Corton, annunciato dal titolo più grande di copertina, e quello di André Fuster sulle  difficoltà attuali delle denominazioni dei vini francesi (“Che cosa non va nelle appellations?)”, ovviamente riferito alla crescente disaffezione di molti produttori, tra i quali, molti di quelli iconici, per le tradizionali AOC.

Questo secondo servizio si articola in due puntate, concludendosi perciò nel prossimo numero. L’immagine scelta per la copertina (ovviamente una magnum), però, non fa riferimento a nessuno di questi due articoli: si tratta infatti di un Hermitage rouge di Delas, del lieu-dit Les Grandes Vignes, il Ligne de Crete 2015, appena rilasciato insieme con i tre millesimi successivi (2016,2017 e 2018) in soli 120 esemplari: una vera rarità.

Cominciamo dalla collina (o  Montagne, come la chiamano i borgognoni) di Corton. L’ampio e interessante servizio di Bettane consta di tre parti. Nella prima si esaminano le origini storiche del vignoble di Corton, dalla celebre donazione da parte di Carlo Magno di un clos di   due ettari alla Collegiale di Saint-Andoche di Saulieu, fino all’individuazione  dei confini della complessa appellation (una appellation a incastro , che comprende diverse porzioni che possono fare riferimento indifferentemente alla denominazione Corton e Corton-Charlemagne), attraverso  l’ improbabile aggregazione di tre villaggi,  Ladoix-Serrigny , Aloxe-Corton e Pernand Vergelesses, molto sbilanciati nelle possibilità di sostenere la propria causa: assai diversi  tra loro (repubblicano  e laico il primo, che non ha mai ottenuto l’interesse delle grandi famiglie cattoliche nobiliari,  tradizionalista e cattolico il secondo, ostile alle aspirazioni di Ladoix  e convinto di essere il vero titolare del grand cru, cattolico di tipo “bobo”, ricco di artisti e teatranti, il terzo, a cui sarebbe stato comunque impossibile sottrarre l’esistenza del cru storico Charlemagne.

Bettane descrive con precisione le difficoltà affrontate per la definizione dei confini e i diversi lieux-dits aggregati nel grand cru (la loro rappresentazione completa nella grande mappa colorata). La seconda parte consiste nella descrizione dettagliata dei diversi territori costituenti questo grand cru unico e multiplo, raggruppati in base alla loro collocazione nei tre comuni concorrenti, facendo riferimento distintamente a quelli destinati alla produzione di vini rossi, quasi esclusivamente bianchi o di entrambi i colori.

Infine, nella terza ed ultima sezione dell’articolo, Bettane illustra i dieci Corton (bianchi e rossi) “della sua vita”. A parte la scelta, che forse altri potrebbero definire diversamente, è sempre un piacere leggere Bettane, degustatore di indiscutibile talento e conoscitore profondo:  Leroy (Corton 1964), Bouchard Père (Corton-Charlemagne  1955 e Corton Le Corton 2003) e Chandon de Brialles (Corton 1967 e Bressandes 2018) ,  i Corton-Charlemagne  di Coche-Dury (1988) e Bonneau de Martray ( 2002), con Rapet (1971) , e i Corton Latour (Vigne au Saint 1959) e Sénard (Corton Clos des Meix 1989).

L’altro articolo di cui mi occuperò è quello di Fuster, dal titolo “Il crepuscolo degli dei” riguardante le crescenti difficoltà delle denominazioni vinicole in Francia e la perdita di credibilità dell’INAO, l’ente preposto alla loro tutela. Nella prima parte (la seconda, conclusiva, sarà pubblicata nel prossimo numero, il # 24 ), l’autore ripercorre velocemente  la storia delle loro origini, a partire dagli  antecedenti mitici (il Falernum nell’antica Roma e anche prima, se si pensa  alle anfore di Tutankhamon che riportavano in dettaglio i territori di  provenienza delle uve, vigne e coltivatore compresi, oltre all’anno della vendemmia) a quelli “storici” nel territorio francese: il favore mostrato dai sovrani per i vini o le uve di alcune località (dai vini di Jurançon preferiti da Enrico IV al bando del “déloyal gamay” nella Borgogna di Filippo l’Ardito), fino al classement bordolese del 1855, a proposito del quale Fuster  ricorda che l’origine di quella storica classificazione  era legata più alla promozione delle proprietà che dei territori.

Piuttosto, l’ancoraggio alle origini territoriali dei vini fu sfruttato soprattutto dai frodatori, che vi facevano riferimento per spacciare vini di origini non nobili oppure contraffatti come vini di qualità.

I primi riferimenti attendibili risalgono piuttosto alla fine della prima guerra mondiale, allorquando, il 6 maggio 1919, venne votata la prima legge di protezione delle denominazioni di origine: in realtà solo parziale, perché il suo scopo (ma era già tanto per allora), era solo quello di permettere ai produttori di poter collegare i loro vini ad un’area geografica chiaramente individuata, divenuta un bene collettivo. Di qualità e identità  non si parlava ancora affatto, ma nessuno avrebbe potuto rivendicare per i propri vini una denominazione indipendentemente dalla origine reale.

Apparve però subito chiaro che un semplice riferimento geografico era del tutto insufficiente. La legge sulle appellations arrivò quasi vent’anni dopo, nel 1935, con l’istituzione di  un Comitato nazionale apposito per gestirle. Venne perciò aggiunto un dettagliato “cahier de charges” (disciplinare) che, al di là della contestualizzazione geografica, specificava le varietà ammesse e le pratiche colturali  adottate localmente, ma il controllo della qualità dei vini mediante una degustazione, aggiuntiva a quello analitico delle prescrizioni di ciascuna denominazione, fu introdotto solo negli anni ‘70.

Al centro della tutela delle denominazioni resta in definitiva la nozione di tipicità. Ma che cosa assicura la tipicità di un vino, al di là dell’inevitabile adattamento all’evoluzione della società e le mutazioni del gusto? Si potrebbe dire che il nucleo immutabile della tipicità sia costituito innanzitutto dal suolo, e dalla sua supposta capacità di produrre effetti abbastanza marcati da prendere il sopravvento sui metodi colturali e le pratiche di vinificazione adottate. Ma come definire ciò che ne permette l’identificazione o che rappresenta una minaccia per la sua espressione autentica ? Diventa allora imprescindibile una degustazione che permetta di valutare l’accordo esistente sulla valutazione delle proprietà sensoriali del vino ritenute proprie di un dato territorio.

Ma il ricorso alle degustazioni appare oggi assai più problematico di un tempo e viene sempre più spesso contestato. Fuster si sofferma su alcuni aspetti di queste difficoltà (ad es. derivanti da  alcune caratteristiche considerate in un dato contesto un difetto grave delle vinificazioni e invece altamente tipiche di una data tradizione , come ad es. l’alto valore di etanale e sotolone dei vins jaunes).Attendiamo l’articolo conclusivo.

Guglielmo Bellelli

Nella mia prima vita (fino a pochi anni fa) sono stato professore universitario di Psicologia. Va da sé: il vino mi è sempre piaciuto, e i viaggi fatti per motivi di studio e lavoro mi hanno messo in contatto anche con mondi enologici diversi. Ora, nella mia seconda vita (mi augurerei altrettanto lunga) scrivo di vino per condividere le mie esperienze con chi ha la mia stessa passione. Confesso che il piacere sensoriale (pur grande) che provo bevendo una grande bottiglia è enormemente amplificato dalla conoscenza della storia (magari anche una leggenda) che ne spiega le origini.


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