Stampa estera da conoscere e commentare: La Revue du Vin de France n.6298 min read

In copertina, una bottiglia di Saint-Émilion grand cru, lo Château de Villemaurine, affianca un più modesto Vin de France, l’appellation generica che sembra oggi affascinare (per motivi diversi) molti produttori,anche di grande prestigio,  di un po’ tutta la Francia. Nel caso specifico, un semplice Melon di Vézelay del Domaine de La Cadette. Come dire l’aristocrazia delle grandi AOC  che si confronta con l’anonimato di quelli che un tempo erano chiamati semplicemente Vins de Table.

E difatti quello del nuovo fenomeno dei Vins de France è uno dei temi principali  di questo numero. Gli altri sono rappresentati dalle due grandi degustazioni  sistematiche del mese, dedicate rispettivamente ai Saint-Émilion grand cru (esclusi i Premier, i 62 derivanti dalla classement del 2012) e ai vini del Valais svizzero, e dall’inchiesta dedicata ai Masters of Wine britannici.

Poi, come sempre, a completare il numero,  ci sono le consuete, numerose rubriche, le note degli editorialisti, la “grande intervista” (Olivier Cuvelier, in difesa dei crus bourgeois bordolesi) e gli articoli “seriali”  che , di volta in volta, mettono a fuoco un tema ricorrente.

Il confronto tra due produttori dello stesso terroir con uno stile diverso (in questo caso i Pommard  del climat Rugiens del Domaine de  Montille e del Domaine  De Courcel), il focus su una proprietà (la Laurent-Perrier, storica Maison di Champagne, con la sua Cuvée Grand Siècle in verticale) o su un terroir specifico (qui, quello di Buzet, nel Sud-Ouest, dove le varietà bordolesi, come il merlot e, in minor parte, il malbec, sono completati dal petit verdot e dal meno conosciuto abouriou , e, nei bianchi, ai due sauvignon, blanc e gris, e alla moscadelle, si affiancano colombard, petit e gros manseng).

Senza dimenticare, naturalmente, gli abbinamenti cibo-vino (questa volta tocca al cardo) e l’enoturismo (Narbonne e dintorni).

Soffermiamoci un po’ di più sui quattro articoli principali, cominciando dalle degustazioni.  Assai meno conosciuti  dei premiers grands crus  (A e B, come prevede la particolarissima  AOC di Saint-Émilion) e dal costo assai minore, i cru selezionati dall’ultimo classement del 2012  mostrano livelli crescenti di qualità, insieme con la novità di un gruppo sempre più nutrito, nonostante le difficoltà climatiche di questi anni e gli attacchi di mildiou, di Châteaux convertiti alla cultura biologica.

I risultati della degustazione : accanto ai nomi più noti , tra i quali spicca, con la sua grande regolarità  e l’eccellente riuscita degli ultimi millesimi (2015 e 2016), lo Château Grand Corbin-Despagne, vi sono  piccole proprietà in grande ascesa qualitativa. Tra queste, nel settore meridionale più  vicino alla città di Saint-Émilion, sono  lo Château La Clotte, quattro ettari di terrazze esposte  a pieno sud nel vallone di Fongaban,  e lo Château Rochebelle, cru familiare di tre ettari, ottimamente circondato da Tertre Roteboeuf, Troplong-Mondot e la Mondotte, che, con la finezza dei loro tannini, hanno spuntato i punteggi più alti.

La degustazione della RVF segue  puntigliosamente una  zonazione virtuale del terroir di Saint-Émilion in sette settori . Oltre a quello già citato,  il plateau storico del Côteaux du Haut de Saint-Émilion, a sud-ovest, il più ricco di premier cru (ben 8 su 18), dove brilla il Clos Saint-Martin, il più piccolo dei crus classés.

Poi la Côte Nord , dove le maturazioni sono più lente e leggermente ritardate, quella nella quale, pur non essendovi ancora nessun premier cru, si concentra il maggior numero di classés  (sorprendente lo Château  Guadet). Segue  il  plateau argilloso- silicioso occidentale ,  dominato da  Figeac e  Cheval Blanc  (molto bene, con contaminazioni pomerolesi, La Tour-Figeac, un cru di 15 ettari nato dalla divisione dello Château Figeac del 1879).

Per passare al Grand Est, per lungo tempo marginalizzato e quasi disprezzato, che ha però avuto una sua recente rivalsa , inanellando  ben sei cru inclusi dal nuovo classement , per non parlare di  Valandraud, promosso direttamente al rango di premier cru (miglior punteggio per lo Château Péby-Faugères, gemmato da Faugères appena sette anni fa). Chiude la Côte Ouest, con numerose proprietà emergenti, ambiziose e assai ben gestite, in grande crescita qualitativa (tra questi il Clos des Jacobins della famiglia Decoster); e infine la Valle della Dordogna , con soltanto due crus classés , che comunque testimoniano il valore del terroir (in grande progresso lo Château Quinault-L’Enclos).

Meno celebre per i suoi vini del terroir di Saint-Emilion, il cantone francofono del Valais cela vini di notevole interesse, che non si riducono a quello più conosciuto, il bianco Fendant , dove lo chasselas ha trovato la sua terra d’elezione. Un territorio, quello del Valais , il più esteso per superficie vitata, con i suoi 4.800 ettari, ma dotato di alcuni atout eccezionali: in primo luogo l’altitudine (qui si coltiva la vite fino a 1.300 metri) , che consente di assicurare una straordinaria freschezza nei vini, nonostante i suoi 300 giorni di sole annui. Poi c’è il foehn, il vento caldo e secco a permettere un clima molto equilibrato, che favorisce il raggiungimento di una maturazione ottimale. Tra i bianchi , oltre naturalmente al piacevole, ma un po’ semplice Fendant,  vanno tenuti d’occhio gli johannisberg (nome adottato nella regione per i sylvaner), gli eleganti ermitage (la marsanne del Rodano, qui declinata in versione secca o moelleux), gli  splendidi vini  a base di petite arvine (  da encomio quelli proposti dalla Cave des Amandiers e da Gérard Dorsaz -sembra di essere in Val d’Aosta), ma soprattutto moelleux (con lo straordinario grain noble di Marie-Thérèse Chappaz).

Un bel potenziale  hanno anche i bianchi provenienti dal raro amigne, dalle spiccate note di albicocca e mandarino, e dal païen (nome locale del traminer), molto interessanti anche i bianchi da assemblage (in evidenza ancora Marie-Thérèse Chappaz, con un bianco che unisce ermitage, païen, arvine, pinot blanc e sylvaner, in pratica le principali cinque varietà bianche della regione, e il bianco del Jardin sécret di Caroline Frey, nome ben conosciuto del bordolese- Château la Lagune-, ma anche nella Valle del Rodano-Jaboulet Ainé- e, oggi in Borgogna, con lo  Château de Corton-André-,  innamoratasi di una piccola vigna del Valais).

Sono forse un po’ meno affascinanti i rossi, tra i quali spiccano però degli ottimi syrah (quello di Denis Mercier è, per la RVF, uno dei più grandi nel mondo intero) . Sono piacevolissimi i cornalin (i migliori ancora di Mercier e Gérard Dorsaz), mentre appaiono un po’ sottotono i rossi da gamay e pinot noir.

Veniamo ai Vin de France:  una denominazione  generica che autorizza i vignaioli a liberarsi da qualsiasi restrizione dei disciplinari  delle AOC di competenza. Ma le motivazioni non sono omogenee: tra coloro che hanno adottato questa denominazione, c’è anche chi, come Mark Angeli (Ferme de la Sansonnière) vorrebbe, all’opposto,  creare dei climat alla borgognona in Anjou , permettendo ai vigerons volontari di sottoporsi a un cahier de charge d’excellence. Una volta erano i Vins de Table, che non potevano citare né i vitigni impiegati né il millesimo della vendemmia. Ora, invece, queste menzioni sono possibili, e anche se questo permette loro di competere alla pari con gli innumerevoli vini varietali del Nuovo Mondo, ingenera qualche confusione con i vini cosiddetti IGP.

Dietro questa denominazione c’è di tutto. Ci sono bianchi di Saint-Emilion, grande terroir di vini rossi, ma anche di vini bianchi, fino all’invasione della fillossera  (tra quelli degustati ce n’è uno dello Château Vieux Taillefer, da vecchie vigne di  merlot blanc di 85 anni), syrah e chardonnay alsaziani (e non di piccoli vignerons ribelli o  alla ricerca di provocazioni e  di fama, visto  che tra questi c’è il Domaine Zind-Humbrecht,  che firma uno Chardonnay di tutto rispetto, che ha riportato   valutazioni  che si concentrano  tra i 15 e i 16.5/20), vini “nature” del Bergeracois,  chenin “ribelli” della Loira, naturalmente il melon riscoperto della Nièvre  riportato in copertina e persino un bianco da uve rodaniane vinificate e imbottigliate a Parigi dal suggestivo nome di Lutèce blanc.

Come sono questi vini? Ha cercato di scoprirlo una grande degustazione alla cieca della RVF, che ne ha preso in esame una trentina. I risultati sono molto vari: tra i promossi con lode , un carignan blanc provenzale del Domaine La Réaltière apprezzato in modo plebiscitario , un eccellente petit manseng del Jurançon  di Camin Larredya (con valutazioni comprese tra i 17 e i 18/20),  lo chardonnay alsaziano di Zind-Humbrecht, di cui s’è detto, un’ interessante cuvée da autoctoni corsi che ha stregato Olivier Poussier.

Tra i bocciati anche qualche  nome conosciuto. A dividere i degustatori è stata soprattutto la volatile: accettata e tollerata (entro certi valori) da molti, ma non da tutti, mentre è stata unanime la condanna della SO2, delle riduzioni e delle note animali . Campi divisi sulle ossidazioni: apprezzate come segni di complessità oppure rifiutate  come indici di una eccessiva evoluzione.

Eccoci giunti infine ai Masters of Wine, sogno (o incubo?) di tutti i giovani sommeliers e appassionati di vino del mondo. Costosissimi (4.000 euro all’anno solo per l’iscrizione ai primi due anni di corso, ma il budget finale si avvicina ai 40.000 euro), e prestigiosissimi, sono una istituzione profondamente radicata nella storia e nella tradizione inglese, ma presto diventata “globale”.

Le sue origini affondano nelle antiche guilde dell’epoca carolingia, poi, nel 1363, la charte royale  fu accordata alla VIntners’ Company per regolare l’importazione e la vendita dei vini in Inghilterra, ma diventata poi, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, in associazione con la Wine and Spirit Trade Association, l’Institute of Masters of Wine, che si è dato la missione di formare l’élite internazionale dei super-esperti del vino, il riferimento fondamentale del mondo dell’enologia globale. Non mancano le critiche: non solo per i costi troppo elevati, ma perché, pur conferendo una grande preparazione , generale e specialistica, secondo alcuni, promuoverebbe una eccessiva omologazione  del pensiero , favorita anche dall’approccio fortemente normativo del mondo anglo-sassone.

Si finisce, come sempre, con il “débat autour d’une bouteille” . Quale? Un Bandol rouge, lo Château Pradeaux 2010. A contendere, Jean-Emmanuel Simond , stregato da questo cru, e Karine Valentin, che non lo ama ritendendolo un vino “del passato”. Lasciamo ai lettori la scelta di schierarsi con l’uno o con l’altra.

Guglielmo Bellelli

Nella mia prima vita (fino a pochi anni fa) sono stato professore universitario di Psicologia. Va da sé: il vino mi è sempre piaciuto, e i viaggi fatti per motivi di studio e lavoro mi hanno messo in contatto anche con mondi enologici diversi. Ora, nella mia seconda vita (mi augurerei altrettanto lunga) scrivo di vino per condividere le mie esperienze con chi ha la mia stessa passione. Confesso che il piacere sensoriale (pur grande) che provo bevendo una grande bottiglia è enormemente amplificato dalla conoscenza della storia (magari anche una leggenda) che ne spiega le origini.


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