Slow Wine Fair: diverse cose da rivedere5 min read

I primi tre mesi dell’anno sono ormai diventati per le cantine un vero incubo. Tra anteprime e fiere in giro per il mondo i produttori schizzano di qua e di là come trottole, con investimenti a mio parere sempre più sproporzionati rispetto ai ritorni.

Rimango dell’idea, maturata da qualche anno, che un minimo di ordine logico si dovrà prima o poi iniziare a darlo, pena la svalutazione  eccessiva di questi appuntamenti che li svilirà sempre di più, riducendo la presenza dei produttori ma anche e soprattutto degli operatori.

Metà febbraio Wine Paris, fine febbraio Slow Wine fair, metà marzo Prowein, metà aprile Vinitaly. Tutte fiere con l’ambizione di avere un respiro più o meno internazionale, di essere indirizzate ai buyers e alla stampa specializzata oltre che al circuito HORECA. Inviti a importatori e giornalisti in alcuni casi anche offrendo viaggio e soggiorno.

Caratteristiche specifiche per ogni evento non pervenute, eccetto per Slow wine Fair che si propone come “Un’opportunità per incontrare vignaioli e vigneron che aderiscono al Manifesto del vino buono, pulito e giusto e fanno parte della Slow Wine Coalition, la rete internazionale promotrice di un sistema produttivo sostenibile, della difesa del paesaggio e di una crescita sociale, culturale ed economica delle campagne”.

Ed è proprio sulla Slow Wine Fair che vorrei fissare il focus. Un impegno, quello di selezionare produttori che seguono il principio del buono, pulito e giusto, che da solo potrebbe giustificare la partecipazione a questo evento da parte di vignaioli e trade. Diamo così per scontato che tutte le aziende espositrici abbiano queste caratteristiche e che quindi Slow Food abbia fatto correttamente la propria parte. Sull’organizzazione logistica della fiera mi sento invece di obiettare non solo per esserci stata, ma soprattutto per aver ascoltato i pareri di alcuni produttori presenti.  Cartelli inesistenti a partire dai parcheggi per gli espositori e dalla fermata dei bus ai padiglioni interessati, nonché all’interno dei padiglioni stessi (ho fatto 12 km a piedi nell’arco della giornata cercando padiglioni e produttori!). All’ingresso dei padiglioni consegnavano la cartina con l’elenco generale degli espositori, ma essendo piuttosto grande non era di facile consultazione: un cartello fisso da visualizzare con l’elenco almeno di quelli del padiglione sarebbe stato più efficace.

Nell’arco dei tre giorni nessun inserviente è passato tra gli espositori per verificare se mancasse qualcosa; poche lattine di acqua lasciate nello spazio la prima mattina e poi più niente fino a martedì quando non servivano più. Libertà ai produttori di tenere musica a tutto volume disturbando le postazioni accanto, nonché di predisporre l’assaggio di prodotti tipici che se sono piacevoli al palato, creano però qualche disagio se vengono sequestrati tutti i tavoli disponibili per allestirli.

Un tavolo ogni 3-4 produttori e 100 cm di bancone sono oggettivamente pochi per un assaggio professionale, ma soprattutto per un colloquio su prezzi, disponibilità e via di questo passo. Le strutture espositive erano un po’ instabili, ma soprattutto nessuno è passato nei tre giorni per aiutare a risolvere eventuali problemi (che ci sono stati): i produttori sono stati abbandonati a sé stessi e non si sapeva a chi rivolgersi.

La piattaforma per gli appuntamenti con gli importatori ha invece funzionato bene grazie ad un livello alto degli ospiti invitati, anche se 200 operatori (di cui 40 ospitati dall’ICE) per 1000 espositori sono pochi, è qui forse che si dovrebbe investire sempre di più. Inoltre l’esiguità degli spazi espositivi creava notevoli difficoltà agli incontri.

L’affluenza invece degli operatori italiani (con i quali è stato impossibile prendere appuntamenti, ma questo è tipico dell’ italianità poco professionale) è stata modestissima, così come il livello dei consumatori finali presenti.

Pur comprendendo l’utilità degli introiti dei biglietti sarebbe forse il caso di decidere a chi si vuol indirizzare l’attenzione della fiera. Se si spendono fior di quattrini per avere la presenza dei buyers, non si possono  invitare in concomitanza anche i consumatori finali che non solo non hanno le stesse esigenze ma possono creare situazioni di imbarazzo in caso di accavallamenti.

Riservare spazi definiti (un padiglione a se?) ai winelovers, magari organizzando delle belle degustazioni anche in abbinamento con cibi dalle varie regioni sarebbe una bella idea. Del resto è tipico di Slow Food, che di fatto ha inventato questo stile e non vedo perché non farlo proprio in un evento in cui l’associazione è protagonista.

Io me li ricordo i “Laboratori del gusto” delle prime edizioni del Salone del gusto: erano sempre sold out e divertivano tutti i partecipanti, oltre che dare occasione ai produttori di presentare i loro vini in situazioni ottimali e con grande soddisfazione.

Le “masterclass” di Slow Wine Fair dedicate a temi a volte un po’ intellettualoidi forse non devono scomparire, magari pure aumentare perché ci vuole anche questo  per il consumatore e il professionista più evoluto; ma il consumatore finale che grazie a Slow Food ha imparato o sta imparando un consumo più consapevole di cibo e vino, ha bisogno di essere seguito , coltivando questa sua conoscenza e passione.

Molti eventi sono stati organizzati fuori fiera, ma non è la stessa cosa. Altrimenti cosa contraddistingue Slow wine fair dalle altre fiere? Solo il fatto che possono partecipare esclusivamente le aziende presenti nella guida Slow Wine? Non mi pare sufficiente.

Maddalena Mazzeschi

A 6 anni scopre di avere interesse per il vino scolando i bicchieri sul tavolo prima di lavarli. Gli anni al Consorzio del Nobile di Montepulciano le hanno dato le basi per comprendere come si fa a fare un vino buono ed uno cattivo. Nel 1991, intraprende la libera professione come esperto di marketing e pubbliche relazioni. Afferma che qualunque successo è dovuto alle sue competenze tecniche, alla memoria storica ed alle esperienze accumulate in 30 anni di lavoro. I maligni sono convinti che, nella migliore tradizione di molte affermate PR, sia tutto merito del marito! Per Winesurf si occupa anche della comunicazione affermando che si tratta di una delle sfide più difficili che abbia mai affrontato. A chi non è d’accordo domanda: “Ma hai idea di cosa voglia dire occuparsi dell’immagine di Carlo Macchi & Company?”. Come darle torto?


LEGGI ANCHE