Ogni tanto, senza nulla togliere agli enti regionali preposti alla promozione, mi domando se in Alto Adige non ci fossero persone come i produttori che hanno creato Sauvignon Experience e altre importanti manifestazioni come il Concorso sul Pinot Nero, che livello di conoscenza ci sarebbe di alcuni vitigni come appunto il pinot nero, il sauvignon, il cabernet sauvignon, il merlot e soprattutto dei territori dove si coltivano.
Non conosco la risposta ma tre giorni passati in compagnia di questi produttori (un educativo mix di piccoli produttori, grandi nomi e cantine sociali, che potrebbe servire da esempio per tutto l’Alto dige) mi hanno fatto capire che non conta tanto organizzare bene un Concorso Nazionale sul Sauvignon, quanto creare “terreno fertile per idee” (chiamato appunto Sauvignon Experience) attorno a questo.
Mi spiego: accanto al Concorso Nazionale sul Sauvignon, di cui parlo qui, erano state organizzate discussioni e confronti aperti sulle filosofie produttive, affiancati da degustazioni di vecchie annate di Sauvignon altoatesini, arrivando ad una verticale di Pouilly Fumè (fino al 1983!) per chiudere sia con una degustazione di Sauvignon da tutto il mondo aperta al pubblico sia con la presentazione di un nuovo libro sulla storia del Sauvignon in Alto Adige. Se a questo ci mettiamo accanto le molte e piacevolissime discussioni durante pranzi e cene è normale tornare a casa con un quadro variegato, anche se complesso, sul Sauvignon in Alto Adige.
Questa è la vera importanza del Concorso! Quella di essere un momento di discussione e di presentazione di realtà diverse, dal quale tutti, produttori e giornalisti, ne escono arricchiti.
A da questo arricchimento (non chaptalization, tranquilli… ) ecco che cosa ho tirato fuori.
Con una capacità vitata sul sauvignon di poco più di 400 ettari l’Alto Adige si trova da qualche anno ad un bivio importante: da una parte deve soddisfare un mercato che praticamente da sempre vede i Sauvignon altoatesini come vini piacevoli, varietali, immediati e dai prezzi piuttosto contenuti, dall’altra ormai da diversi anni i produttori cercano di innalzare il tiro (e il prezzo dei vini), proponendo Sauvignon più complessi, corposi, quasi sempre passati in legno, venduti magari uno o due anni dopo la vendemmia.
E’ una strada legittima che ultimamente ha avuto una brusca impennata con l’avvento di quelli che potremmo chiamare “SuperTirol” cioè vini (non solo da uve sauvignon) di grande concentrazione, potenza e importanza, alcuni con una storia dietro, altri meno, ma comunque venduti tutti a prezzi altissimi per la media altoatesina.
Il grande pregio per le cantine che li mettono in commercio è certo commerciale, perché nobilita l’azienda, riesce a farle ottenere riconoscimenti in Italia e all’estero e quindi traina anche verso l’alto il valore dell’intera produzione.
Ma accanto a questi indubbi pregi ho capito che si nasconde un possibile problema, quello di mettere in primo piano il marchio a svantaggio del vigneto e del territorio.
Infatti per far comprendere meglio i grandi passi avanti fatti dall’Alto Adige occorrerebbe anche far comprendere quali siano le zone veramente vocate per ogni vitigno altoatesino. Seguendo un po’ l’esempio del pinot nero, con l’identificazione di Mazzon e Gleno come territori particolarmente adatti, forse sarebbe meglio se questa tipologia di supervino nascesse solo da un vigneto particolare in una zona particolare, in modo da creare una specie di piramide qualitativa che permetterebbe al consumatore di capire meglio le reali possibilità dell’Alto Adige.
Bisogna dire che, almeno nel campo dei Sauvignon, molte cantine fanno nascere i loro “supertirol” in due tra appezzamenti particolarmente vocati. Qualcuno li riporta anche in etichetta: credo dovrebbero farlo tutti .
Tutto questo discorso esula dall’ambito puramente qualitativo: questi supervini sono indubbiamente di alto livello, ma forse cominciando a parlare di veri e propri terroir si aggancerebbe il vino al territorio, facendo capire che lo stile Alto Adige non è ripetibile in Nuova Zelanda o in Spagna, come i Sancerre o i Pouilly Fumè presentati nella interessante verticale non sono ripetibili in altre zone enoiche del pianeta.
Questo perché a fare Sauvignon buoni sono buoni praticamente tutti, ma per farli come vengono a Penon o ad Appiano Monte, occorrono proprio quei territori e magari degli enologi che non vogliono imporre la “ricetta aziendale” alle diversità dovute alle annate o al clima.
Occorre anche dire che è stata presentata al ministero una richiesta per quelle che in Langa chiamano “Menzioni Geografiche Aggiuntive”. La realtà altoatesina però , con tanti vitigni con cui fare i conti e forse tante persone a cui non poter dire di no, complica il tutto, proponendo anche 4-5 vitigni diversi in zone “particolarmente vocate”. Un po’ come se a Cannubi vi fosse la possibilità di riconoscere la MGA per il Dolcetto, la Barbera e la Nascetta. Su questo vedremo cosà ci dirà il futuro.
Nel frattempo non possiamo che congratularci con chi non solo organizza interessanti eventi ma produce vini di sempre più alto livello qualitativo.