Rosati in terra di Rosati, che settimana!4 min read

Prima parte

Se i tour per giornalisti enogastronomici dovessero essere tutti come quello di Rosati in terra di Rosati il rischio di estinzione della specie dei figliocci di Veronelli sarebbe molto alto.
Il motivo? Indigestione!

A parte gli scherzi, la settimana trascorsa in Puglia per Rosati in Terra di Rosati, manifestazione organizzata da Buonapuglia e giunta oramai alla XVIII °  edizione è stata molto  interessante, fruttuosa, e molto  impegnativa….anche  per il susseguirsi di lauti pranzi ed altrettanto pantagueliche cene (la lacrima di coccodrillo non si vede ma c’è…)

Il nostro scopo principale era però quello di fare il punto sul rosato pugliese, questo vino ora molto di moda e sempre più visto come uno dei “must” enologici della regione.

Tante cantine visitate con molta attenzione, facendosi spiegare i  metodi produttivi e registrando le impressioni dei viticoltori su questa tipologia di vino.  Molti vigneti  osservati  con tranquillità, grazie ad una settimana non certo torrida. Tanti rosati assaggiati e riassaggiati, sia in cantina, sia a ristorante, sia in degustazioni bendate che volevano essere la “prova del nove” di quella fatta a suo tempo a Vinitaly e da cui erano scaturiti i venti rosati selezionati.

Una vera e propria full immersion nel mondo del rosato pugliese da cui siamo usciti con alcune certezze.  La prima certezza è che il rosato pugliese, pur essendo di gran lunga il migliore in Italia, può e deve migliorare. Infatti se vi sono molte aziende che lo vedono come un fiore all’occhiello della produzione, trattandolo con grande cura ed ottenendo così un prodotto buono adesso e buono tra uno-due anni, ve ne sono altre per cui il rosato è “il vino di moda”, di pronta beva, in alcuni casi affiancato dal cugino “frizzante” (creato sul momento il proverbio: rosato e frizzante? Vendi all’istante!).

In un mondo dove non esiste un consorzio di tutela dei rosati, dove non si sa quanto rosato si produca in Puglia, dove non ci sono quindi linee guida ma tutto è lasciato all’impegno ed al “naso” dei singoli produttori, il rischio per il rosato pugliese di qualità è di ritrovarsi sorpassato a destra e sinistra da vini, frizzanti o non, di prezzo, valore ed immagine nettamente inferiore.

Dico questo perché credo si sia in un momento importantissimo per il rosato pugliese dato che nell’immaginario enoico collettivo non siamo mai stati così vicini alla definitiva valorizzazione di questi vini. Infatti quelli che chiedono un rosato, se gli viene posta la domanda “Lo volete pugliese ( o salentino)?” immaginano (a ragione) che il prodotto abbia una qualità superiore.  Questo sia grazie alla grande crescita del vino pugliese in generale ma soprattutto grazie a quei produttori che da molti anni si impegnano per la valorizzazione di questo prodotto, che viene visto come un giusto  tra fragranza, freschezza e corpo. Per questo, quando troviamo rosati che poco hanno in comune con questa triade ne siamo dispiaciuti soprattutto per gli altri produttori che invece mettono in campo prodotti di ottimo livello.

Inoltre sia in campagna sia in cantina le aziende visitate si sono mostrate ben attrezzate e quindi non si capisce che cosa impedisca a diversi rosati di spiccare il volo.

Posso fare un’ipotesi e dare un consiglio? Il rosato è un vino che va trattato con grande attenzione ed ha bisogno di tempo per digerire i possibili sballottamenti. Per questo vedrei molto bene la diminuzione drastica del numero di imbottigliamenti, onde permettere al vino di digerire la filtrazione, la dose di solforosa immessa in quel momento e “rendersi presentabile”. Se si  è prodotto un ottimo rosato perché non dargli il giusto tempo per scoprire le sue carte? Perché imbottigliarlo in continuazione e metterlo subito in commercio invece di programmare imbottigliamenti più numerosi con conseguente affinamento minimo del prodotto? Pensateci!

Inoltre, anche se le tecnologie sono adeguate credo che un grande passo avanti i rosati pugliesi potrebbero farlo grazie ad una vinificazione completamente in riduzione, partendo dall’utilizzo del ghiaccio secco in vendemmia fino a presse e vasche sotto gas inerte in vinificazione.  Dite che è chiedere troppo? Forse, ma parlate con un qualsiasi produttore neozelandese di sauvignon e chiedetegli se i suoi vini sarebbero stati conosciuti nel mondo senza l’utilizzo di queste tecniche, poi fatevi due conti.

 Nel nostro tour abbiamo assaggiato rosati di tre-quattro anni che non solo si conservavano bene ma che avevano complessità e piacevolezze in certi casi superiori a quelli dell’ultima annata. Con questo non vogliamo sposare la nefasta teoria di far invecchiare (magari in legno) anche i rosati, ma solo puntualizzare che il rosato, proprio per sue caratteristiche intrinseche, aggiunte al momento di mercato che sta vivendo può e deve essere non solo il vino da bersi immediatamente ma anche il prodotto su cui contare dopo l’estate e..pure dopo l’inverno.

Mi accorgo che non ho parlato per niente di ristorazione e di prodotti tipici, anche essi la centro del nostro tour. Tranquilli, lo farò nel prossimo articolo.

 

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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