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<<C’è chi pensa alla famiglia, chi al lavoro, chi al denaro, chi al sesso. Ma sono tutte illusioni. Io ho la mia: VV. Non posso fare a meno di crederci>>. [Rimini, Pier Vittorio Tondelli, Bompiani, 1985]

  

 Rimini è una città sbilenca, confusa, trafficatissima, piena zeppa di palazzoni, di semafori e di contraddizioni. Rimini è la vera metropoli della east-coast italica, disseminata di ombrelloni come un’immensa piantagione balneare, di luna park e night club, di puttane e puttanieri, di lavavetri malconci e “rabazzieri” squattrinati. Rimini possiede anche un’energia senza eguali e una gioventù che brucia di bellezza, in cui le ragioni del buonumore sono ben più intime di quanto si creda: di pancia e di cuore. A Rimini vale il prurito di apparire, lo slogan ammiccante alle tendenze del momento e insieme un tenace attaccamento alla dimensione più passionale del lavoro, in bilico tra pianeta e provincia, tra evasione e radici profonde. Rimini è anche vino, che oggi somiglia a un miraggio, a <<un tempo sognato che bisognava sognare>>, in attesa che qualcuno ne propizi il risveglio. [Francesco Falcone]

  

Nell’ampio repertorio enoviticolo della Romagna, la provincia di Rimini è certamente la meno estesa, ma non la meno ricca di storia: esiste infatti una solida documentazione che ne legittima la vocazione produttiva – evidentemente rossista-  a cavallo tra la fine del 1800 e l’inizio del secolo scorso. Pare che gli osservatori dell’epoca apprezzassero la sapidità e la  spiccata acidità dei rossi locali, almeno rispetto alla media regionale. Forse la ragione di tale distinzione stava nell’abitudine tutta riminese di unire una robusta quota di uve bianche alle rosse.

Caratteristica, quella della freschezza, alquanto camuffata nel corso degli ultimi vent’anni, durante i quali la zona ha da un lato perduto rilevanza in termini di notorietà tra gli operatori (ad eccezione della cantina di San Patrignano all’inizio dello scorso decennio, ma per ragioni strutturali e produttive non replicabili altrove) e dall’altro smarrito il pregio della riconoscibilità territoriale, al punto da chiedersi cosa rappresenti Rimini oggi, nelle vicende romagnole.

Io non sono in grado di rispondere; tuttavia qualcosa sembra muoversi sottotraccia. Ad esempio, un nutrito gruppo di produttori guidato dal generoso Massimo Lorenzi (titolare della Enio Ottaviani di San Giovanni in Marignano), prova finalmente a far parlare una Rimini rinnovata, che ha voglia di farsi conoscere, apprezzare e sostenere.

Lo fa con timidezza, senza clamori, senza le scorciatoie di un colpo ad effetto, senza gli acuti di un vino solista, senza il talento di un frontman al comando. Anzi, a mettersi in ascolto con attenzione, la voce di questa “Rimini del futuro” sembra avere ancora l’indistinzione di un sottofondo sonoro, la trama larga di una base corale aperta a diversi sviluppi melodici possibili.

Il buono è che dopo la mia ultima tornata di assaggi svolta sul territorio lo scorso mese, si coglie il profilo (benché non ancora del tutto a fuoco) di un potenziale collettivo; si apprezzano le linee guida di un motivo più o meno condiviso (ad esempio: frutto e sapidità tornano a lampeggiare, seppure a intermittenza); si percepisce l’ambizione di un principio ispiratore. È già qualcosa.

D’ora in avanti sarà importante individuare pochi accordi, ma bene intonati, giacché l’obiettivo dei produttori coinvolti è soprattutto quello di valorizzare la vocazione orchestrale del distretto, per arrivare nei prossimi anni a una sintesi stilistica ed espressiva.

Se i bianchi da quelle parti sono piuttosto originali (la Rebola e il Biancame rappresentano delle specialità quasi esclusive e anche il Pagadebit ha una dignità altrove pressoché sconosciuta), in tema di rossi anche a Rimini si parla soprattutto la lingua del sangiovese, come ovunque in Romagna.

La si parla con toni non del tutto definibili, senza la voce poderosa che il vitigno fa sua nel Faentino o nel Forlivese, dove in questi ultimi anni si vanno producendo le bottiglie romagnole più convincenti.

La cadenza tradisce vieppiù qualche inflessione vernacolare, con modi talvolta bruschi e talaltra teneri, ma qui e là si conserva anche un certo pudore dell’eloquio, una certa apprezzabile essenzialità d’espressione, che a ben vedere è tipica di tanti vini prodotti a stretto contatto con il mare.

Del resto, salvo pochissime eccezioni, l’entroterra riminese coinvolto nel comprensorio regionale della denominazione Romagna Sangiovese (e in quello provinciale della Doc Colli di Rimini) si sviluppa su terreni argillosi, mediamente bassi in quota e perlopiù affacciati sull’Adriatico, che qui – ben più che nel resto della regione – esercita un’influenza reale sugli esiti produttivi.

Ciò detto, la sensazione è che il potenziale del Riminese meriti un’esplorazione più profonda da parte dei vignaioli, dei tecnici, degli operatori e della critica. E per farlo occorrerà tempo, pazienza, passione.

Il banco d’assaggio, organizzato per il sottoscritto con l’indispensabile complicità di Davide Bigucci, ha visto la partecipazione di numerose cantine: Ca’ Perdicchi, Case Marcosanti, Fattoria Il Piccione, Franco Galli, Fiammetta, Enio Ottaviani, Podere dell’Angelo, Podere Vecciano, Poggio San Martino, Sant’Aquilina, San Valentino, Tenuta Saiano, Tenuta Santini, Terre di Fiume, Valle delle Lepri. Una costellazione di medie, piccole e piccolissime imprese a carattere familiare ancora alla ricerca dei colori più giusti per la propria tavolozza, da cui emerge qualche buona certezza fin d’ora.

Rappresenta una realtà stilisticamente matura la Podere Vecciano di Coriano, che produce vini credibili, onesti, saporiti, di gran lunga i miei preferiti. E aprono finestrelle di luce le selezioni orecchiabili, di taglio costiero, della Enio Ottaviani. E lasciano un buon ricordo i rossi succosi e contemporanei di Tenuta Saiano; si fanno bere con nonchalance i bianchi grintosi di Valle delle Lepri; appagano gli amanti della polpa i rossi toscaneggianti di Tenuta Santini; meritano un supplemento d’indagine alcune referenze di Terre di Fiume e di San Valentino.

Certo, non è abbastanza per strapparmi un sorriso. Le lacune più evidenti non sono però numeriche, perché non mancano le bottiglie ben fatte; ciò che appare fragile ai miei occhi è la personalità. Ci vuole più coraggio. E più entusiasmo. E più amore, qualità che stanno alla base di tutte le sfide possibili.

Il vino buono non deve dirci solo del vitigno. Né solo della tecnologia. Né solo delle cose che sappiamo. Ma di quelle che immaginiamo.

Ripenso allo scrittore Giovanni Comisso, che del leggendario Picolit della Rocca Bernarda, vino del privilegio di Luigi Veronelli, disse: <<è un vino che non fa pensare all’uva, ma al polline dei fiori diluito nella rugiada>>. Ecco, bisogna puntare a quella specie di miracolo. Sempre.

Chiudo precisando che la mia ricognizione riminese, indipendente e lontana da ogni ipotesi marchettara, non ha alcuna ambizione di completezza e men che meno di verità: è solo una prima e personalissima foto d’insieme, una veloce istantanea collettiva fatta con i miei sensi, le mie mani e la mia testa.

Semmai, la speranza è che questo primo tentativo di gruppo sia solo l’alba di un progetto sempre più condiviso, per confrontarsi, conoscersi e capire.

Giovanni telegrafista direbbe: Alba è urgente.

Forse a Rimini è più urgente che mai.

 

 

 

 

 

 

 

 

Francesco Falcone

Nato a Gioia del Colle il 6 maggio del 1976, Francesco Falcone è un degustatore, divulgatore e scrittore. Allievo di Sandro Sangiorgi e Alessandro Masnaghetti, è firma indipendente di Winesurf dal 2016. Dopo un biennio di formazione nella ciurma di Porthos, una lunga esperienza piemontese per i tipi di Go Wine (culminata con il libro “Autoctono Si Nasce”) e due anni di stretta collaborazione con Paolo Marchi (Il GiornaleIdentità Golose), ha concentrato per un decennio il suo lavoro di cronista del vino per Enogea (2005-2015). Per otto edizioni è stato tra gli autori della Guida ai Vini d’Italia de l’Espresso (2009-2016). Nel 2017 ha scritto il libro “Centesimino, il territorio, i vini, i vignaioli” (Quinto QuartoEditore). Nell’estate del 2018 ha collaborato alla seconda edizione di Barolo MGA, l’enciclopedia delle grandi vigne del Barolo (Alessandro Masnaghetti Editore). A gennaio 2019, per i tipi di Quinto Quarto, è uscito il suo ultimo libro “Intorno al Vino, diario di un degustatore sentimentale”.  Nel 2020 sarà pubblicato il suo libro di assaggi, articolazioni e riflessioni intorno allo Champagne d’autore. Da sei anni è docente e curatore di un centinaio di laboratori di degustazione indipendenti da nord a sud dell’Italia.


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