Rifiutando la logica del monovitigno4 min read

Alcuni punti di questo scritto di Luca Francesconi, vignaiolo (www.josefwine.it) di Ponti Sul Mincio, mi hanno veramente colpito, anche perché ho sentito dire molte di queste cose da un certo Marcel Deiss. Ho chiesto quindi il permesso a Luca di pubblicarlo su Winesurf e lo ringrazio per avere accettato.

Una nuova stagione è ormai in pista, conclusi i lavori invernali di potatura ed “aggiustatura” dei vigneti: tirare i fili, sostituire qualche pianta mancante, consolidare argini, da noi vi sono anche altre pratiche ormai “estinte” da svolgere. Potare gli alberi dentro i filari, per esempio.

Proprio così, il vigneto non dovrebbe mai essere un campo specializzato, ma una policultura. Quegli splendidi filari che conosciamo, i quali coprono interamente alcune delle più note regioni vitivinicole mondiali, Valdobbiadene con la glera da Prosecco, le Langhe col nebbiolo, la Champagne con chardonnay e pinot  e presto, magari, Lugana con la turbiana, sono in realtà delle enormi monoculture che ingannano la tradizione e la storia sedimentata in centinaia d’anni di selezioni massali.

Un tempo gli innesti si eseguivano “in casa”, ovvero nelle cascine dove era sviluppata una vera arte di montare i vitigni sui piedi americani, e talvolta si preferiva addirittura non innestare, moltiplicando la pianta per propagazione, sotterrando un ramo – era questo un metodo chiamato localmente “Trattora”-. In altre parole, il vigneto era un organismo vivente, una policultura che alle piante da frutto, atte spesso a sostenere le vigne, “maritandosi”, intervallava dei seminativi utili sia agli allevamenti sia all’alimentazione umana.

La competizione colturale che ne deriva è a vantaggio anche della qualità dell’uva: la pianta dovrà sforzarsi di trovare in profondità i nutritivi necessari, senza contare lo scambio di sostanze organiche che, specie le colture stagionali, apportano al terreno.

Da noi ci sforziamo di tenere viva questa visione agricola: faggi, mandorli, peschi, salici e olmi sono essenziali lungo i filari, così come la stagionalità del prato è cardine dei periodi di coltura. I molti fiori di tarassaco, ortica, erba medica e malva sono vitali per attirare le api, le quali impollineranno anche le viti. Nel Garda i vigneti non erano mai stati a monovitigno, ma sequenze di quattro o cinque piante di rossanella si alternavano ad altrettante di negrara, schiava, merlot (di vari tipi), rondinella, rossetta di montagna, marzemino e marzemino padovano.

Durante la vinificazione i vari vitigni, aventi caratteristiche diverse ed epoche vendemmiali diverse, si compensavano l’un l’altro: l’elegante e tannica negrara richiedeva la presenza della più fresca ed aromatica schiava o rossetta, le quali conferivano l’acidità malica necessaria. In altre parole una volta assieme molte uve oggi espiantate perché considerate “deboli” trasformavano i propri singoli limiti in pregio gustativo. Oggi abbiamo una consapevolezza enologica superiore, ma sappiamo che il grande vantaggio degli uvaggi misti è proprio quello del principio di “non dominanza varietale”, tutto a favore dell’espressione del millesimo. Con le uve miste è il terroir a dominare.  Tutti i nostri vini sono derivati da uvaggi, frutto di gestioni separate, l’assemblaggio della cuvée avviene al termine della vinificazione .

Dalla vendemmia 2016 abbiamo dato vita ad una seconda etichetta di Garda Colli Mantovani Rubino, l’Isidro Agricola 2016, un vero progetto “creolo”, dove nessun vitigno ha prevalenza sugli altri. Abbiamo messo al centro il territorio morenico e dato futuro a vigneti con un’età media di quasi 80 anni. La riforma nel Rubino nel disciplinare del 1997  segna un impoverimento delle tipologie storiche, e soprattutto una perdita di cloni autoctoni. Via via le colline e spesso i fondivalle  si sono riempite di varietà (cosiddette) migliori, perché più produttive: Chardonnay, Cabernet, Merlot.

I produttori di tutte le zone d’Italia hanno sempre più optato per il monovitigno, semplice da realizzare e soprattutto da comunicare. Contraria alla biodiversità, è altresì questa una scelta depauperante per il territorio: un vigneto centenario non dovrebbe essere espiantato, l’uva che ne deriva è di gran lunga migliore, con tannini e terpeni più strutturati e profondi. Il monovitigno diffuso in tutta la zona, non importa se si tratti anche di vini blasonati come il Brunello, Barbaresco, Barolo o  i Riesling della Mosella, spesso significa anche monoclone, esponendo intere coltivazioni a delle pandemie fitopatogene. Essendo le piante identiche, sono simultaneamente esposte ai medesimi problemi e malattie vegetali.

Ne deriva il fatto che anche la logica dei Cru è puramente figlia del monovitigno, impoverendo troppo la varietà vinicola di una zona. Molto più logiche ed in linea con la storia sono le “appellation communal o village”, le quali sono le vere genitrici delle sottozone del barolo (unico caso esteso in Italia).

Così come è stato per il Bardolino, l’Amarone, il Chianti (il quale prevede come possibile anche l’uso di uve a bacca bianca) e per  tutti i grandi vini del nord Piemonte, anche il Garda Colli Mantovani Rubino  è figlio di antica tradizione e di uvaggio misto. Assume maggiore importanza proprio adesso  che  Il DNA delle varietà gardesane è certamente a rischio, continuamente tentato dai richiami di sirene commerciali.

Noi ci siamo messi in testa di produrre un vino moderno, salvaguardando varietà antiche. I vitigni esprimono la storia di un’annata, unica ed irripetibile, una volta assieme conservano il tempo e parlano della terra e del suo futuro.

 

Luca Francesconi

Redazione

La squadra direbbe Groucho Marx che è composta da “Persone che non vorrebbero far parte di un club che accetti tipi come loro”. In altre parole: giornalisti, esperti ed appassionati perfetti per fare un lavoro serio ma non serioso. Altri si aggiungeranno a breve, specialmente dall’estero, con l’obbiettivo di creare un gruppo su cui “Non tramonti mai il sole”.


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