Ricordare il Sessantotto con un Madera “sessantottino”4 min read

E così se n’è andato pure il cinquantenario del ’68. Devo dire che a suo tempo non sono stato un sessantottino, pur avendone i requisiti anagrafici. Rimango sorpreso tuttavia dalla pochezza delle commemorazioni, e magari delle critiche. Come poco o niente fosse successo, insomma.

E invece il millesimo mi colpisce, perché il Sessantotto è stato il Sessantotto, e cinquanta è numero magico.

Mi ritrovo dunque con un amico nostalgico a stappare un gioiellino di Madera, questo Boal ’68 di D’Oliveiras. Sulla scatola è Pereira D’Oliveira, senza esse finale, ma la scritta alla vendita diretta di Funchal, dove a suo tempo l’ho assaggiato e comprato, è come sul vetro. Il vitigno, poi, si trova scritto anche Bual, che anzi è la forma originale portoghese.

Grafie a parte, per il sottile fascino di gustare il tempo pochi altri vini come certi Madera offrono prestazioni paragonabili, e sull’isola si possono assaggiare e portar via selezioni centenarie a costi ragionevoli. La boccia è stata conservata dal sottoscritto in posizione verticale, come raccomandato dalla casa.

Ma veniamo ai tappi, che sono due… Il primo, un classico raso collo, è di lunghezza modesta. Il ruolo di isolante è stato svolto piuttosto dalla ceralacca con tanto di sigillo della casa. E’ stato messo “solo” nel 2004, anno dell’imbottigliamento, come da retroetichetta.

Questo engarrafamento molto tardivo, talora perfino in lotti progressivi, è una prassi che D’Oliveiras condivide con altri produttori per la tipologia Frasqueira, i millesimati monocultivar.

Il secondo tappo mi è stato consegnato insieme alla bottiglia, e serve a richiuderla dopo il primo utilizzo. Perché da una parte è vino che può sopravvivere aperto per un bel po’ tempo; dall’altra è improbabile finire 75cc con 20% di alcol in una botta sola, almeno se alla stappatura siete solo in duem come è capitato a me col mio amico sessantottino.

Ed ecco che nel bicchiere appare limpido anche se non brillante (niente filtrazione, solo deposito naturale durante decenni di vita in grandi botti). E’ di un bruno scuro che svela quella sfumatura verde considerata da alcuni una caratteristica sottile della tipologia. Muovendosi rivela anche una certa densità.

Il profumo esce con impeto e invade l’ambiente, è un turbo che funziona ad alcol. Il primo impatto è tra frutta caramellata e frutta a guscio (noce in evidenza, mallo compreso), subito affiancate da un tono balsamico-officinale. Emerge anche un sentore più austero e piacevolmente polveroso, di fieno e sommacco. Lieve torrefazione.

In bocca è un fuoco artificiale a più stadi: attacca con una garbata dolcezza e subito dopo tocca al tepore alcolico; poi è l’acidità a prendere il comando e a tenerlo per un buon mezzo minuto. Il finale è asciutto, con vena amarognola appena percettibile ma persistente. Saltano fuori nuovi aromi prima sfuggiti al naso, forse per associazione di memoria con la sequenza gustativa: agrumi, spezie, liquirizia. Dalla Toscana viene da pensare a un boccone di panforte seguito da ponce alla livornese.

Finito qui? No, si va a testare la resistenza. La bottiglia viene ritappata e il vino sorseggiato da qualche altro bencapitato, per una ventina di giorni: nessuna variazione, rimane tal quale. La temperatura di servizio è sempre quella chambré, cioè sui 18° scarsi come erano le chambres quando l’espressione fu coniata. Deve superare anche alcune sfide, come l’assalto di un Epoisses o quello della torta di cioccolato dell’amico Pistocchi. Bel gioco.

Intanto fra un sorso e due chiacchiere sempre in tema di celebrazioni mi dicono che fu Madera anche il vino del coraggioso brindisi del 4 di luglio 1776, quando fu lanciata la Dichiarazione d’Indipendenza che portò poi alla formazione degli Stati Uniti d’America. Il leader era Thomas Jefferson, in seguito Presidente, che tuttavia ammirava i vini secchi francesi e quindi avrebbe preferito qualcosa di non fortificato. Ma allora le colonie americane erano il principale mercato per i liquorosi di Madera, e lo sarebbero rimaste a lungo: la California prima della corsa all’oro era quasi disabitata.

Un’altra chiacchiera sbanda in direzione brassicola, anche se sempre di ’68 si tratta. Quest’anno si è festeggiato infatti il cinquantenario della prima Thomas Hardy’s Ale, una delle poche birre millesimate, dedicata all’omonimo scrittore britannico. Uno sfizio da provare anche in verticale – a trovarne – perché considerata molto longeva.

In tanto tempo sono cambiati i mastri birrai, i luoghi di produzione e le etichette, ma non lo stile: questa birra ha l’alcol di un vino, gas poco o niente, ha vissuto in legno. Non a caso la chiamano “barley wine”, cioè “vino d’orzo”…

Intanto fra una rievocazione e l’altra abbiamo notato che lasciare sul tavolo i bicchieri vuoti del Boal è un modo per profumare l’intera stanza.

Non so cosa stesse succedendo a Madera nell’estate ’68, tra il maggio di Parigi e l’agosto di Praga.

Era un lembo di terra appartata di un Portogallo ancora salazariano, senza navi da crociera; ma c’è da scommettere che piovesse. Perché sulle vette dell’isola vulcanica, quasi duemila metri, si scaricano più di 3000 millimetri l’anno: è una foresta pluviale. Fra i vigneti terrazzati più sotto magari piove un po’ meno, ma dopo cinquant’anni la freschezza dell’isola è ancora tutta nel bicchiere.

 

 

 

Alessandro Bosticco

Sono decenni che sbevazza impersonando il ruolo del sommelier, della guida enogastronomica, del giornalista e più recentemente del docente di degustazione. Quest’ultimo mestiere gli ha permesso di allargare il gioco agli alimenti e bevande più disparati: ne approfitta per assaggiare di tutto con ingordigia di fronte ad allievi perplessi, e intanto viene chiamato “professore” in ambienti universitari senza avere nemmeno una laurea. Millantando una particolare conoscenza degli extravergini è consulente della Nasa alla ricerca della formula ideale per l’emulsione vino-olio in assenza di gravità.


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