Portogallo: fermate il meeting, voglio scendere! Parte 24 min read

Chiudevo la prima parte annunciandovi una serata dai risvolti enologici interessanti. 

Ricomincio con lo stesso amaro in bocca: gusto di Serra de Estrela, il formaggio simbolo del territorio che ci ha calorosamente ospitato ghettizzandoci in un palasport a sentire più o meno approfondite dissertazioni sul marketing, sulla comunicazione, sull’enoturismo… enoturismo? Ma hanno capito cosa vuol dire la parola? Ci hanno portato a sentir parlare di enoturismo senza farci vedere neanche col binocolo una sola vite, men che meno una cantina!

E allora? E intanto il pomeriggio procede e volge al termine. Si parla di blog, di wine web, di facebook come risorse per la comunicazione enologica. Non mi rimane che scollegare l’attenzione dal presente e lasciar viaggiare i pensieri nel ricordi di tante belle uscite, tante belle degustazioni. Cerco di salvare il salvabile, prima ancora di parlarvi della chiusura dell’evento.
Devo rifletterci un bel pò, non tra le diverse cose belle e interessanti completamente assenti ma tra le poche cose degne di una trasferta così lunga.

E allora che mi rimane? Bacalao, neanche a pensarci, santa mia madre che mi ha fatto scoprire quant’è buono. Formaggi e salumi? Già scritto. Una tartare di trippa sbollentata e servita fredda e gommosa come quadrotti di caucciù ad aspettarci sui tavoli del pranzo e della cena? No, no. Meglio resettare.

Mi rimane solo la chisura della seconda cena. Dopo una serie infausta di assaggi a tavola, evidentemente qualcuno tra i produttori presenti si è sentito in colpa, la punizione che stavamo subendo per aver accettato l’invito era troppo dura da sopportare anche per la loro coscienza. E così Dirk Nieport ha deciso di tirar fuori qualche gemma a dar splendore alla serata. Poche gocce ciascuno, almeno per chi è stato intraprendente (per non autodefinirmi sfrontato) nel riuscire a raggiungere con il calice quelle singole bottiglie da cui si versa un gran bel Porto.

Via via si sono seguite 6 grandi annate di Tawny Colheitas. Primo approccio con un White Port con 10 anni di maturazione che aveva ben poco di interessante.  Al primo arrivo dei tawny colheitas, un ’98, ho pensato che sarebbe stata una magra consolazione ma meglio di niente. Apprezzabilissino, ancora particolarmente fruttato con toni speziati evidenti. Buona lunghezza, qualche spigolo tannico affiorante e una acidità ancora da domare. Non preannunciato segue un bel ’95, molto più fruttato, ciliegioso, con sfumature eteree e una persistenza encomiabile. Un piccola ma reale gratificazione per noi comuni mortali con il vizio delle cose buone. Ma questo si è rilevato essere solo il secondo passo.

Spunta improvvisa un’altro colheitas la 1988. Colheitas vuol dire raccolta, i Porto Tawny sono quelli invecchiati a lungo nel legno con assemblaggi di vari annate di cui di dichiara in etichetta il valor medio: 10 anni, 20 anni, ecc.
Un colheitas è un tawny “millesimato” per una annata di grande livello qualitativo. Evidentemente questi porto, con i vintage (che si invecchiano prevalentemente in bottiglia dopo un breve stazionamento nel legno), rappresentano il meglio delle produzioni nel tempo.
E infatti la colheitas ’88 è un colpo di cannone. Potente, coinvolgente, con un gran naso equamente bilanciato tra toni fruttati di confetture e di frutta sotto spirito e spezie incredibilmente sfaccettate. La potenza olfattiva si manifesta ancor più evidente in una bocca incredibilmente ricca nel dipanarsi degli aromi, con una verve acida vibrante pronta a ridimensionare la dolcezza al ruolo comprimario. Grandissimo Porto.

Dopo tanto splendore, l’annata ’84 e la ’79 che seguono perdono la partita. Siamo passati da un cannoniere a dei fidi e infaticabili mediani che fanno benissimo il loro lavoro nel mantenere vivide le peculiarità del vino ma senza brillare. Il fuoriclasse arriva a chiudere la verticale. Colheitas ’65, più Eusebio che Christiano Ronaldo, efficacia  ed umiltà dei grandissimi, non effetti speciali. Colore pallido ma luminosissimo, un naso da incorniciare per complessità di toni eterei  dai frutti sotto spirito ai risvolti di cuoio e tabacco, ai fiori appassiti, con una successione infinita di emozioni. La bocca è snella, niente sovrastrutture, zucchero appena presente, filino di tannini a rendere maschio l’approccio, una acidità fresca, tonica ed una infinita lunghezza aromatica.

Un piacere vero, una consolazione reale.

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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