Pianeta Mamoiada: il mondo del grande cannonau6 min read

Il termine  Pianeta Mamoiada  calza alla perfezione a questo  territorio, con un’atmosfera e caratteristiche uniche e forse irripetibili, che per tre giorni ci ha visto girare per vigne e cantine. Anzi, se  Marte viene chiamato il Pianeta Rosso, Mamoiada, le sue vigne, i suoi produttorie e  i suoi vini, possono essere tranquillamente chiamati Il Pianeta Rosso del Cannonau.

Ma cerchiamo di andare con calma e presentare in maniera chiara un vero e proprio fenomeno enoico, che andrebbe conosciuto e  studiato con calma.

Mamoiada si trova praticamente nel centro della Sardegna, ad un passo da Orgosolo e dal  Supramonte, nomi conosciuti non certo per motivi enoici,  a circa a 650-700 metri di altezza. Il terreno è granitico ma si disfa facilmente creando uno strato superficiale di sassi minuti, misti a omeopatiche dosi di sabbia e/ di argilla. Dal punto di vista tecnico è  chiamato  disfacimento granitico ed ha caratteristiche molto particolari, tipo che in vari punti ti pare, specie se è piovuto, di camminare su una spiaggia.

Le vigne sono piantate su queste “spiagge”, che vanno dai 600 agli 850 metri e quindi a altezze importanti. Questo delle “spiagge di montagna” potremmo definirlo il primo paradosso di Mamoiada  ed è sicuramente una caratteristica basilare  per  approcciarsi alle altre  del nostro “pianeta”.

Sarà infatti l’altezza, sarà il terreno o l’aria, ma tutta la viticoltura qui è giocoforza biologica, in quanto normalmente vengono fatti uno, massimo due trattamenti di zolfo e rame all’anno. Avete capito bene: la media è un trattamento all’anno e ci sono vigneti secolari che non sono mai stati trattati.

A proposito di vigna, attualmente a Mamoiada ci sono poco più di 300 ettari di vigneto, piantati quasi esclusivamente a Cannonau (1% di un vitigno bianco autoctono, la Granazza). Di questi 300 circa il 30% ha età che vanno dai 50 agli oltre  100 anni, un altro 30% va da 20 a 50 anni ed il rimanente non arriva a 20 anni. I vigneti più vecchi sono piantati ad alberello, quasi tutti quelli più recenti, chiamati in dialetto “su pastino” con altre forme (Guyot, cordone, cordone bilaterale). L’esposizione è certo la cosa meno ricercata nel piantare un vigneto: praticamente non ne esiste una preferita e quando si vuole fare una vigna si guarda soprattutto all’altezza e alla vocazione storica della zona.

Molti produttori inoltre cercano di convincere chi ha vigneti vecchi e li usa solo per autoproduzione, a venderli oppure a vendere le uve.

Questo perché circa cinquanta anni fa c’erano più di 400 ettari di vigneto, ma il fallimento della cantina sociale e i successivi contributi all’espianto hanno disperso  un patrimonio vitato di assoluto valore. Nonostante questo oltre 200 famiglie (con 2500 abitanti, praticamente tutto il paese) hanno continuato ad avere un piccolo vigneto e a fare vino per autoconsumo.

L’associazione Mamojà, a cui dobbiamo l’invito e che ringraziamo, nasce tre anni fa proprio da una quarantina  di piccoli produttori. Di questi circa la metà ha deciso di fare il grande salto  dal vino sfuso, che comunque ha sempre un suo florido commercio, all’imbottigliato, seguendo così la strada di alcuni, come Sedilesu, Puggioni e Montisci, che da anni affrontano con soddisfazione il mercato.

Mi accorgo di aver scritto abbastanza e non aver ancora toccato il cuore del cannonau di Mamoiada che, grazie forse anche ad un genius loci particolarmente forte e comprensivo,  ha mostrato caratteristiche stupefacenti anche  in  cantine che definire “arcaiche” è poco.

Ma il termine “arcaico”, almeno per quanto riguarda la viticoltura locale,  è inteso nel  senso di essere legati a quando non esistevano altri strumenti che le braccia  e  il lavoro in campagna era diviso tra l’uso dei buoi e l’utilizzo generalizzato della “trazione umana”. In altre parole, qui quasi tutte le vigne sono zappate, lavorate e vendemmiate a mano. Inoltre diverse lavorazioni, specie in vecchi vigneti ad alberello, vengono fatti con i buoi, tanto che tutti produttori sanno il prezzo di una “giornata” di lavoro (in realtà una giornata sono 4 ore)  per utilizzare i buoi e  alla fine il lavoro del massaiu, cioè di colui che porta e guida i buoi, è un mestiere che ha un suo perché.

Tra le lavorazioni nel vigneto spicca una che va oltre l’arcaico e sinceramente non ho mai visto fare da nessun’altra parte: ogni primavera la terra attorno ad ogni  vite viene zappata per portare alla luce la parte radicale immediatamente sotto al portainnesto, per poi liberarlo delle radici superficiali  formatesi durante l’anno. Dopo questo lavoro che, fatto a mano vi lascio capire quanto tempo e fatica comporti, la terra viene riportata sulla pianta e il portainnesto torna ad essere coperto.

Anche tutte le altre lavorazioni, come detto, vengono fatte a mano ma qui si lascia da parte l’arcaico perché dalla potatura verde alla sfemminellatura alla vendemmia, tutto viene fatto per una produzione di qualità.

Una volta portate le uve in cantina a Mamoiada convivono due modi di fare vino: quello di chi da tempo lo produce, lo imbottiglia  e si è attrezzato per farlo e quelli che stanno abbandonando la vendita dello sfuso ma hanno ancora cantine e metodi di vinificazione  adatti più ad una vendita locale.

Il bello è che da entrambe le “categorie” nascono  cannonau di grandissimo livello e soprattutto assolutamente riconoscibili e riconducibili al territorio di Mamoiada.

Quasi nessun produttore usa lieviti selezionati (se lo sono autoimposto nel disciplinare di produzione dell’associazione): molti, specie quelli che stanno facendo il passaggio dallo sfuso all’imbottigliato, vinificano in tinozze giganti di plastica da 500-1000 litri e poi mettono il vino in contenitori (botti di castagno tante, serbatoi inox pochi) che spesso hanno 40-50 anni. Solo alcuni produttori usano il minimo indispensabile di solforosa all’imbottigliamento. I produttori più conosciuti hanno metodi di vinificazione che vedono l’utilizzo di vasche in cemento, acciaio e tine il legno, mostrando un notevole rigore produttivo.

Alla fine  dei salmi definirli come vini “naturali” è per me riduttivo: forse è meglio usare il termine “familiari” perché molti fanno il vino come l’hanno sempre fatto in famiglia e il bello è, come ho già detto, che tanti risultati sono incredibili.

Ma che caratteristiche hanno i vini? Rispetto ai cannonau di molte altre zone della Sardegna hanno prima di tutto una nota alcolica molto meno accentuata e non giocano solo su sensazioni di frutta rossa matura ma spaziano, anche da giovani,  tra note di frutta nera e sentori quasi terziari, dove aromi di erbe officinali e quasi terrosi riescono a spingersi verso sentori di sottobosco. In bocca il tannino è presente ma non rustico, saldo ma dolce. L’equilibrio è notevole e per fortuna nessuno usa legni invasivi o coprenti.

Il nostro giro ci ha permesso di visitare molti piccoli o piccolissimi produttori (chi produce 2000 chi 5000 bottiglie, chi solo sfuso) legati a Mamojà e  più volte siamo entrati in “cantine” dove veniva da mettersi le mani nei capelli. Poi assaggiavi i vini dalle botti aspettandoti brett, volatile, acetica e magari filante e trovavi invece non solo pulizia ma vini di alto profilo, con  frutto espresso perfettamente e complessità, potenza e dolcezza tannica di altissimo livello.

Quasi un miracolo, che si è ripetuto in molte “cantine” che proprio negli ultimissimi anni si sono attrezzate  o si stanno attrezzando  per  imbottigliare. Sarà merito forse dei bassi PH dei vini, della quasi assoluta mancanza di trattamenti nel vigneto o forse il merito va dato a Sant’Antonio Abate, che viene festeggiato il 17 gennaio con la famosissima sfilata dei Mamuthone.  Non lo sappiamo ma continueremo ad investigare anche perché abbiamo scoperto un gruppo di amici più che di produttori, che ci hanno accolto con una cortesia e disponibilità assoluta.

Di questi vi parleremo nel prossimo articolo, intanto li ringraziamo per tutto quello che hanno fatto per noi ma soprattutto per quello che stanno facendo per Mamoiada.

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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