Giulio Gambelli mi voleva troppo bene per dirmelo, ma probabilmente non si fidava molto del mio palato. Di fronte a lui, con i suoi stagionati e singolari campioni di laboratorio, avevo preso troppe topiche clamorose del tipo “Questo sangiovese da dove viene?” (intendendo la vigna, naturalmente) annusi, assaggi, spari e sbagli. Oppure “Cosa c’è dentro a questo sangiovese?” dici canaiolo e pensi di essere salvo, “Si, ma quanto” e alzi le mani in segno di resa.
A lui non interessava che magari di qualche buona bottiglia riuscissi a dire vita morte e miracoli: per lui assaggiare vini in bottiglia, anche blasonati, era un qualcosa a cui non era molto interessato.
Del vino (suo e di altri) amava la nascita, il comprenderlo sin da subito, l’aiutarlo a crescere bene, il riuscire a fargli dare il meglio, il tutto naturalmente senza usare niente che l’etica gambelliana non approvasse. Dal momento che andava in bottiglia il vino per lui perdeva interesse, forse perché non poteva più intervenire o forse perché il vino entrava in un’altra dimensione, quella del vino parlato, presentato, discusso con aggettivi più o meno roboanti, mentre lui usava solo verbi (faccio questo, dovete fare così etc). Lui costruiva la macchina con i pezzi che aveva e quasi sempre la costruiva benissimo, ma non gli interessava molto guidarla.
Ma perché ho scritto questo? Ah si, per arrivare al fatto che, per un motivo o per l’altro, su sei degustazioni per il Premio Gambelli sono riuscito a partecipare solo a tre e comincio a pensare che sotto sotto, da lassù lassù, ci sia lo zampino di Giulio: per esempio l’anno scorso mi mandò un raffreddore da elefanti che passò miracolosamente dopo due giorni, negli anni precedenti era stato per due volte ancora più “drastico” e così anche quest’anno mi aspettavo un intoppo.
Ma quest’anno Giulio mi ha “permesso” di partecipare e così, mentre a Montepulciano (sede quest’anno del premio) degustavo vini dalla Sicilia al Piemonte, bianchi, rosati, rossi, giovani e vecchi, ma tutti vini creati da giovani enologi, pensavo a come questa degustazione sia non solo interessante, ma didatticamente fondamentale per un amante del vino/degustatore.
Di solito per una guida si assaggiano vini della stessa tipologia, mentre nel Premio Gambelli cambi vitigno praticamente ad ogni bicchiere: non puoi “appoggiarti” alle caratteristiche del vino precedente o successivo, ma ogni volta devi ripartire da zero e valutare quel vino come “un unicum” un prodotto che esplica le caratteristiche di uno o più vitigni in una determinata zona.
Oltre a conoscere i vitigni devi anche collocare il vino nel suo giusto contesto e soprattutto valutare se quel vino è rispettoso delle uve e del territorio da cui proviene.
Questo esercizio, oltre a non essere facile, viene fatto, come detto, senza rete cioè senza punti di appoggio, però è proprio grazie a questo che riesci a vedere i vini sotto occhi diversi, quelli della loro “unicità conclamata”, di come cioè raccontino bene o male la loro storia, di come si facciano (o non si facciano) attori e promotori del proprio territorio. E quest’anno ci sono stati alcuni vini che, oltre ad incarnare lo stile gambelliano, erano di una qualità stratosferica, tanto che un “tirchio cronico” nei punteggi come me, ha dato tre o quattro voti sopra a 90/100.
Alla fine scoprire chi ha vinto (come presidente della giuria sono , fino al 14 febbraio, uno dei pochi a saperlo) mi da sempre una grande gioia perché sono convinto che Gambelli, pur timidamente scontroso e bonariamente burbero, approverebbe sia la scelta finale della giuria sia soprattutto questo modo di ricordarlo.
A proposito di ricordare, ricordatevi che la premiazione del Premio Gambelli sarà mercoledì 14 febbraio in Fortezza a Montepulciano, prima della cena di gala.