Per la qualità meglio le DOC o i… TCF?7 min read

Siamo felici di ospitare l’ennesimo contributo di Francesco Sedilesu, produttore di vino a Mamojada. Il tema è talmente importante che potremmo definirlo semplicemente IL TEMA del futuro. Per questo saremmo felici che da questo articolo nascesse una discussione seria..

Tempo fa Carlo Macchi mi ha chiesto di fare un articolo sulle DOC, anche territoriali, una riflessione su e se siano ancora o no espressione della massima qualità dei vini. Peggio per lui.

Quale sia il parametro della qualità di un vino oggi è un argomento che potrebbe far discutere per molto tempo.

In senso filosofico se, come alimento, il vino è quello che meglio esprime la vitalità della natura e quindi potremo dire la vita, tale misterica complessità (che sfugge alla comprensione umana) si presta a delle interpretazioni  spesso  superficiali o semplicemente commerciali, che privano completamente il vino della sua natura.

Le più veritiere sono quelle radicate nei ricordi infantili, quelle che ti si sono inconsapevolmente incarnate, un po’ come le madeleine nel tè di Proust in “Alla ricerca del tempo perduto”: Ma appena la sorsata mescolata alle briciole del pasticcino toccò il mio palato, trasalii, attento al fenomeno straordinario che si svolgeva in me. Un delizioso piacere m’aveva invaso, isolato, senza nozione di causa. E subito, m’aveva reso indifferenti le vicissitudini, inoffensivi i rovesci, illusoria la brevità della vita…non mi sentivo più mediocre, contingente, mortale.”

Qui, per  Proust, è un ricordo fuggevole di un sapore dimenticato dall’infanzia, che riemerge improvviso dal dimenticatoio con notevole potenza, al punto da dare un nuova, meravigliosa percezione della vita all’autore.

Per chi vive da sempre in un territorio del vino durante la degustazione più che un ricordo avviene la prosecuzione  di un rapporto iniziato allora, nell’infanzia. I profumi del mosto in vendemmia, quando tutti i sensi sono molto più sensibili appunto, in particolare l’olfatto: sono ricettivi del messaggio di un territorio che comprende un paesaggio, una terra particolare, un vitigno, un vino, una famiglia, una comunità fatta di persone, di affetti e di cultura.

Una particolarità molto piccola, ma ben definita e per questo dove sono più nitidi e leggibili i segni della verità e dell’amore universale. Proust continua E’ tempo di smettere, la virtù della bevanda sembra diminuire. E’ chiaro che la verità che cerco non è in essa, ma in me. E’ stata lei a risvegliarla, ma non la conosce”

In questo credo si sia sbagliato (forse perché parla di tè…, non me ne vogliano i suoi cultori è solo ironia barbaricina): per piccola che sia, una parte della verità non disconosce quella più grande o viceversa, semplicemente perché da lei si è originata e fa parte di essa.

É lo spirito che incontra lo spirito, sta a noi non negare la frazione di verità che c’è in un vino genuino e territoriale: bisogna certo imparare a riconoscerla, la lettura non è sempre facile e istintiva.  Il rapporto d’amore cresce e si trasforma, diventa più razionale, più tecnico,  ma ha alla base quell’innamoramento iniziale in cui i profumi per primi e poi il gusto, hanno tracciato segni incancellabili.

Un vino buono e territoriale può risvegliare lo spirito anche in chi non ha questi ricordi e questo ha del miracoloso.

L’uomo di oggi ha perso il rapporto con il cibo e il vino; fin dall’infanzia è avvezzo alle bevande zuccherate e molto elaborate e al cibo spazzatura, che bruciano i recettori degli odori e del gusto.

Questi portano il messaggio amorfo del mondo globalizzato e contribuiscono a lasciare l’uomo di oggi senza i ricordi e i segni di una felicità sostanziale. Formano e scrivono nell’animo del fanciullo un codice fasullo, che purtroppo da grande, lo allontanerà dal saper distinguere la qualità vera del vino e sarà facile preda di chi sfrutta, a fini di mercato, le dolcezze di legno e di zuccheri  e le corposità stucchevoli.

Un vino senza vita non ha qualità, al massimo è  una bevanda piaciona, non piacente, che, come dice Proust, non conosce la verità: voglio precisare però, di conseguenza non potrà mai neanche risvegliarla nell’animo dell’uomo.

Le Doc anche territoriali oggi possono arginare questa deriva? Sicuramente ci sono delle eccezioni e delle eccellenze, ma in generale il vino può facilmente rispondere al disciplinare, ma non avere insiti i ricordi del territorio. La sua genetica è facilmente dimenticata o mai conosciuta dalle figure economiche  che  operano nelle Doc, perché non vi abitano, non fanno parte della comunità rurale, sono spesso degli investitori che badano di più alle tendenze giornalistiche e di mercato.

Lo stesso nome delle Doc ne descrive  il limite, denominazione di origine controllata: testimonia che è stato prodotto in quel luogo geografico ma non che in quel territorio esista di fatto  una comunità che lo sostiene e ne è garante.

Il consorzio di tutela non basta. Spesso la produzione di vino è fastidiosa per la comunità che abita il territorio, a causa dei trattamenti fitosanitari che inquinano, per le strade trasformate in capezzagne, per un paesaggio da monocoltura privo di alberi. In tante DOC o DOCG si può incontrare un mondo “altro”, che vive in una sua separata dimensione perché tra la viticoltura e la comunità non c’è più un legame indissolubile, si è creata una grave frattura.

Un vino può anche essere prodotto nel rispetto della sostenibilità ambientale, ma se non ha la sostenibilità sociale e di conseguenza il sostegno sociale (di cui ancora si parla poco in relazione alla qualità delle produzioni agricole) non ha una qualità vera neanche nel calice.

Con il tempo questo aspetto sarà sempre più rilevante in positivo, almeno si spera.

L’uomo globalizzato che vive in città sente forte il distacco dalla natura e da una comunità rurale a cui appartenere, e spesso decide di darci un taglio e scappa via in campagna, in un piccolo villaggio con due caprette, una mucca e 500 piante di vite: questa è la Decrescita Felice.

E’ un sintomo che fa pensare.

Certo non è proponibile su larga scala e probabilmente dal punto di vista economico non si regge e lo sanno anche i suoi praticanti, visto che magari tengono in banca un piccolo gruzzolo accumulato nella vita precedente, per eventuali necessità.

Si potrebbe pensare però ad una azione più coerente; fare i contadini e i viticoltori di professione che partecipano responsabilmente alla società civile in una comunità rurale e in cui, come primo requisito, non hanno la domiciliazione della ragione sociale, bensì vi abitano e fanno parte integrante della comunità,  producono e vendono un vino territoriale che ha le sue regole, che è rispettoso della natura e cultura del luogo, della religiosità, dell’ambiente.

Come fare per iniziare un nuovo percorso che porti in seguito a nuove normative? Per iniziare serve una definizione per questa nuova esperienza che, per essere subito capita e facilmente individuata, si può basare su codici noti dal punto di vista terminologico, ma con combinazione diversa a descrivere nuovi significati .

La crescita lineare e infinita ha dei limiti irrimediabili. La decrescita felice che gli si oppone è una fuga personale più che una forma di produzione qualitativa, ma  ha una finalità essenziale per l’uomo, quale la ricerca della felicità.

Provo a  prendere a questo punto gli aspetti positivi di una e dell’altra; la crescita si, ma circolare a 360 gradi, per non creare scarti di materia e scarti sociali come dice Papa Francesco,  ma per creare posti di lavoro ai giovani perché non abbandonino la loro terra e costituiscano nuove famiglie, producendo del buon vino che gli dà da vivere, ma vivere felici.

Un Territorio a Crescita Felice è quello che ci vuole! I  TCF potrebbero essere la risposta per fare i vini a qualità totale. E’ una provocazione ma non troppo;  io lo sperimento nel mio territorio di Mamoiada, dove la grande vocazione vitivinicola e varie vicissitudini spesso fortuite, ma anche un grande amore per il territorio e per i nostri vini da parte di tutta la comunità, ha creato un prototipo più che funzionale. Questo ha come braccio operativo l’associazione dei viticoltori Mamojà. Gli indicatori economici tenuti in conto, più che i fatturati, sono la possibilità di creare posti di lavoro e mantenere i giovani nella  comunità rurale che non si spopola.

Una comunità ricca socialmente, culturalmente, religiosamente, amante della sua terra, ha nei suoi vini i portatori di un messaggio di felicità all’uomo di questo tempo, un servizio virtuoso e veritiero più che un prodotto di consumo.

Questa è la vera qualità del vino del futuro, che somiglia tanto a quella del passato.

 

Francesco Sedilesu

Francesco Sedilesu è sardo, di Mamoiada. Produttore di vino ma anche penna profonda e grande conoscitore della sua isola.


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