Olio extravergine e New York Times. Il re è nudo!4 min read

Da quando il New York Times ha dichiarato guerra all’extravergine italiano ho sentito e letto molte cose che però si possono riassumere in due  categorie: Quella dello sdegno da parte dei produttori di qualità che si sono giustamente sentiti  colpiti al cuore (in particolare per un prodotto dove il guadagno netto è veramente irrisorio) e quella, collegata strettamente alla prima ma leggermente diversa, di chi cerca di far capire a chi forse non vuol nemmeno sentire che l’olio extravergine d’oliva italiano è un prodotto di qualità.

 

Entrambi, se vogliamo, hanno ragioni da vendere ma secondo me il problema principale non viene nemmeno sfiorato.

 

Non c’è dubbio che una bella fetta di cosiddetto extravergine italiano (sia venduto in Italia che all’estero) non è certo un prodotto di alta qualità, anche perché non si può sperare che oli a 5 euro a litro al supermercato lo siano. La stessa cosa succede  anche per il vino , che presenta spessissimo prodotti, (specie da esportazione) di costo e qualità ben poco adatti al concetto di alta qualità diffusa del vino italiano.  Però una cosa come quella accaduta per l’olio sul vino non sarebbe stata possibile perché non credibile. Di fronte a frasi del tipo “Il vino italiano non è di qualità oppure è taroccato” qualsiasi consumatore americano  avrebbe  fatto spallucce ricordandosi di almeno una o due buone, ottime o grandi bottiglie di vino italiano.

 

Quindi il vino italiano, pur vendendo molto all’estero in fascia bassa, ha tantissimi prodotti di altissima fascia (pubblicizzati e presentati come tali) che lo difendono e lo mantengono comunque tra i prodotti top.

 

Per l’olio questo non succede, non perché non ci siano grandi oli, ma perché i ricarichi non permettono a questi di essere pubblicizzati, presentati e fatti conoscere come un grande vino. Per assurdo solo la grande industria (grande nel senso di potente) olearia, può permettersi fondi per pubblicizzare oli sicuramente di livello infinitamente inferiore a quelli che rappresentano realmente il top della qualità.

 

Se da una parte le aziende private, che producono veramente qualità, non possono investire in pubblicità e dall’altra il sistema pubblico non sente la necessità di investire in maniera forte in questo settore:  questo porta ad una microframmentazione della proposta che presta facilmente il fianco ad azioni come quella del New York Times. Inoltre….il fianco lo prestiamo direttamente grazie ad una legislazione che dire carente e lassista è dire poco. Esistono i panel di degustazione ma non risolvono certamente tutti i problemi e quando i problemi vengono a galla….ricordate (se non lo ricordate leggete qui )  quello che ha passato il collega Andreas Marz per aver provato a denunciare oli extravergine di scarsissima qualità trovati sugli scaffali in Germania?

 

Così arriviamo al nocciolo del problema. Se tanto olio che transita o parte dall’Italia con il marchio di Extravergine italiano non è di livello la colpa è solo e soltanto di una legislazione con maglie estremamente larghe e quindi, in ultima istanza, colpa nostra. Se per un consumatore americano o tedesco o inglese è impossibile, se non fidandosi ciecamente del prezzo più alto,  capire la differenza tra un ottimo ed uno schifoso olio extravergine italiano o dichiarato tale,  la colpa è di un assoluta mancanza di comunicazione capillare e di educazione alimentare (qui parlo anche per il consumatore italiano).

 

In una forbice così ampia di problematiche hanno buon gioco quelli che puntano a sputtanare un grande prodotto, che però noi per primi non tuteliamo e consideriamo abbastanza.

Per carità, a questo punto molti potrebbero nuovamente indignarsi e darmi del “filo New York Times”, ma la realtà del mercato internazionale dell’olio extravergine d’oliva “Made in Italy” è quella che è; ogni tanto qualcuno (coinvolgendo purtroppo anche l’olio di qualità) dice che il re è nudo ma fino a quando rimarranno queste le legislazioni e  le forze sul mercato questo povero re è destinato a rimanere in abiti adamitici.

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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