Moti cirotani8 min read

Io credevo che fiamme come queste esistessero solo nei pressi del sole, invece Cirò è una fermata molto più vicina. Una fortuna per noi appassionati.

Dopo novecento chilometri e qualche tappa intermedia, mi danno il benvenuto una luce dolorosa che si tuffa nello Jonio e un vento forte che divampa in un incendio di passioni. Quelle di otto vignaioli cirotani che invocano attenzione e reclamano ascolto.

Vanno dicendo al mondo: <<noi ci siamo>>. Ed è vero, io ne ho le prove. Si chiamano Sergio Arcuri, Cataldo Calabretta, Francesco De Franco (‘A Vita), Assunta Dell’Aquila (Dell’Aquila), Mariangela Parrilla (Tenuta del Conte), Francesco e Vincenzo Scilanga (Cote di Franze), Francesco Scala e Cristian Vumbata (Scala).

Loro sanno che una denominazione d’origine cresce e si consolida solo se i produttori collaborano tra loro, fissando degli obiettivi nevralgici. Insieme si individuano più facilmente gli elementi distintivi dei luoghi, dei vitigni e di ogni altra singola faccenda territoriale; insieme se ne valorizzano al meglio le potenzialità; insieme se ne comprendono più rapidamente i limiti.

“Nessun uomo è un’isola” vale qui più che altrove, questo gli artigiani del Cirò lo stanno imparando. E sono anche consapevoli che i sogni hanno un prezzo: bisogna lavorare sodo per realizzarli. Un punto di partenza decisivo, io credo.

Il resto è preparazione, competenza, onestà e umiltà. Lemmi in sintonia che le persone che ho incontrato, tutte col bernoccolo per il loro terroir millenario, che vogliono valorizzare senza scorciatoie, in modo radicalmente artigianale. Ci riusciranno, ma servirà pazienza. Perché c’è un tempo per seminare e un altro per raccogliere, anche se qualche germoglio di luce è già negli occhi di moltissimi appassionati, merito dell’entusiasmo di questi uomini e di queste donne solidali gli uni con le altre; che credono in quello che vanno facendo. Qualità contagiose, ancora più del buon vino.

Francesco De Franco

Mi ha sorpreso la loro disperata voglia di riscattare decenni di isolamento, mi ha convinto la loro sete di conoscenza e di confronto. Non si rimane indifferenti alla curiosità e all’autocritica che li anima, al loro desiderio di propiziare le implicazioni (viticole, enologiche, culturali, sociali, simboliche) necessarie a trasformare un luogo di ottime potenzialità in un distretto credibile anche e soprattutto fuori dagli angusti confini regionali

I risultati finora raggiunti sono confortanti: i vini buoni stanno aumentando, nel gruppo c’è sintonia, i leader amano coinvolgere i colleghi più timidi, i più esperti sostengono i produttori alle prime armi. Così facendo i presupposti per un futuro roseo potranno realizzarsi: io sono fiducioso, loro più di me (ed è ciò che conta).

Sergio Arcuri e famiglia

Assaggiando i vini di queste piccole aziende cirotane mi sono fatto l’idea che forse la vera conquista del Cirò contemporaneo non consiste nell’essere diventato un rosso universale, ma nell’aver trovato il coraggio di raccontare una storia antica con una nuova credibilità, tanto da persuadere chiunque abbia un minimo di sensibilità vera.

Dannoso è però affermare che il Cirò di questi ostinati vignaioli è un grande vino. Si finirebbe per alimentare fraintendimenti tra i consumatori, rinchiudendo i protagonisti di questa bella storia calabrese in una nicchia soffocante, che mai riuscirà a emergere.

No, il Cirò autentico non è un grande vino, almeno in senso ortodosso. Semmai è un vino classico, ma di una classicità non retorica, tutta da rileggere e senza alcuna patinatura da copertina.

Ripensando ai Cirò di questi viticoltori incontrati sotto un cielo nitido come la loro ambizione, azzardo a dire che è un rosso caparbio, estremo, che ti tiene attaccato al calice. Un vino che suggerisce di non fermarsi alle apparenze di un colore sgualcito, di profumi disordinati, di storte traiettorie gustative. Un vino con un caratteraccio che se non lo sai prendere, è finita. L’unico modo per provare ad acchiapparlo è pensare all’altra sponda.

Mariangela Parrilla

“C’è chi passa tutta la vita a leggere senza mai riuscire ad andare al di là della lettura, restano appiccicati alla pagina, non percepiscono che le parole sono soltanto delle pietre messe di traverso nella corrente di un fiume, sono lì solo per farci arrivare all’altra sponda; quella che conta è l’altra sponda”. (José Saramago, La caverna).

Nel Cirò artigiano, prodotto esclusivamente con il raro ed esclusivo Gaglioppo, vale parecchio di più il luogo in cui ti ritrovi dopo averlo bevuto e  molto meno il percorso necessario ad arrivarci.  Non contano il trambusto dei suoi tannini e i suoi tumulti irrisolti, ma il respiro che rimane alla fine. Perché dopo la burrasca arriva sempre il sereno: il Golfo di Taranto e la macchia mediterranea, le erbe officinali e le spezie d’oriente, il tabacco e il pepe, i fiori e l’incenso, la frutta macerata e la terra polverosa.

Cirò è vino perfino insidioso per molti, non per me che lo trovo irresistibile su una serie di sughi scuri e sulla cacciagione. Vino di luce soffusa se non addirittura spenta; vino dalla scorza dura che dissimula tannini di stoffa, quasi nebbioleschi, in grado di articolare una trama viva di intrecci.

Un rosso per bevitori navigati, che hanno superato la fase del vino rassicurante e consolatorio, accettando le complessità più complicate, le mezzetinte autunnali, le evoluzioni precoci. Un rosso per amatori dell’attesa, che nell’attesa potranno godersi un altro elemento decisivo da quelle parti: la sapidità. Sapidità intesa nella sua reale accezione etimologica: sapore sapore sapore. Sapore per la tavola e per chi ha nostalgia di un senso del gusto ormai perduto; un gusto dalla tattilità antica e dalla partecipazione gustativa viscerale.

Scala vini

Il merito della sua “bocca” così peculiare sta in quel contrasto tipicamente mediterraneo che mette in fuorigioco la potenza di fuoco e il peso fine a se stesso. Cos’è il contrasto? Un cambio di passo, un testacoda, un’interruzione improvvisa, che anziché frenare il sorso, lo allunga; una dissonanza che non mortifica il palato e anzi lo rinfranca; uno strappo che accende la persistenza, donandole fiato e fascino.

Contrasti che vanno oltre il vino, in una regione che di contrasti vive e più spesso muore. A cui il Cirò può regalare dignità.

La Calabria la frequento fin da ragazzino e so che ci sarebbero tutte (ripeto: tutte) le condizioni per simulare il paradiso terrestre, invece dovunque mucchi di mattoni, laterizi e scarti di materiale edile abbondonati lungo la strada.

‘A Vita

C’è tutto per esaltare la bellezza di madre natura, e invece ecco una teoria di ruderi, di capanne di cemento, di paesini senza capo né coda, senza inizio e senza fine, e un incessante stillicidio di palazzi condominiali costruiti con sciagurata improvvisazione.  Auspichi una vera progettualità turistica e culturale, e invece occorre fare i conti con la cultura del geometra di alberoniana memoria. Luoghi potenzialmente meravigliosi e brutalmente sciupati; un mare esotico che da solo non basta a dare ordine e senso alla cose, che da solo non basta a frenare la speculazione edilizia e il terzomondismo civico.

Chi ha percorso la statale Jonica che da Sibari conduce fino alle porte del Reggino, passando dunque attraverso comprensorio cirotano, si sarà reso conto in concreto di che cosa significhi “mancanza di un progetto”: di un governo che funzioni, di una programmazione, di uno sviluppo armonico, di vere scelte politiche: questo disastro è tutto lì, in quei duecento chilometri di occasioni mancate.

Dell’Aquila

Per fortuna che c’è il Cirò. Quello autentico mi sento di raccomandarlo senza riserva ai miei pochi ma cari lettori. Perché possiede la prerogativa, tipica dei migliori vini di terroir, di non essere realizzabile altrove, di non essere ipotizzabile se non dove è stato concepito, di non essere nemmeno vagamente confrontabile con un altro vino.

Ce n’è per tutti i gusti: l’eleganza di Cataldo Calabretta, la profondità di Sergio Arcuri, l’armonia di Cote di Franze, il calore di Tenuta del Conte, la freschezza di Scala, il temperamento di ‘A Vita, la morbidezza di Dell’Aquila.

Basta saper scegliere, senza dimenticare che qui la personalità vale più della definizione, la tenacia più della misura, la profondità più del disegno, l’originalità più della piacevolezza, la bocca più del naso. Sì, il Cirò onesto e artigiano, non pettinato dalla tecnica, non camuffato dall’uso di uve internazionali, è rosso per bocchisti, degustatori medievali che puntano al sodo, che se ne fregano dei palloncini di Luigi Moio e della ruota di Ann Noble.  Per queste e per altre ragioni, il Cirò di più inflessibile ispirazione territoriale rifiuta ogni forma di approssimazione interpretativa: un assaggiatore frettoloso deve stargli semplicemente alla larga.

Cataldo Calabretta

Nicola Perullo dice <<che il vino non si gusta col gusto – bocca, naso, cervello; il vino, piuttosto, si sente (con) tutto>>. Vero: occorre un investimento fisico, mentale, visivo, emotivo per godersi appieno un rosso di Cirò. Che rimane l’unica tipologia locale capace di coinvolgere fino in fondo, benché si producano anche buoni rosati (il rosato è il vino del cuore dei cirotani, il liquido della tavola e dell’amicizia) e vini bianchi meno modesti del passato.

Sandro Sangiorgi incita a bere il buon vino con pensiero e sentimento. Ecco, a Cirò è più necessario che mai, a patto di invertire l’ordine dei fattori: prima il sentimento, poi il pensiero.

Il Cirò di terroir, originato da vigne mature, prodotto nel rispetto del Gaglioppo e della terra spesso marnosa in cui affonda le radici, è inadatto alle competizioni senza scampo, ai confronti classificatori, alle catalogazioni seriali, alle tentazioni compilative di una guida generalista.

Qui non c’è bisogno “di guru e di gare” (Perullo), ma solo di appassionati capaci di mettersi in ascolto.

 

Per approfondire i fatti cirotani è imperdibile il bellissimo libro scritto da Giorgio Fogliani per la Possibilia Editore di Samuel Cogliati: “Cirò, i luoghi del Gaglioppo”. (http://www.possibiliaeditore.eu/it/product/ciro-i-luoghi-del-gaglioppo/)

 Kumbuka kwamba ni thamani yake. Ninakutumia caress, upendo wangu.

Francesco Falcone

Nato a Gioia del Colle il 6 maggio del 1976, Francesco Falcone è un degustatore, divulgatore e scrittore. Allievo di Sandro Sangiorgi e Alessandro Masnaghetti, è firma indipendente di Winesurf dal 2016. Dopo un biennio di formazione nella ciurma di Porthos, una lunga esperienza piemontese per i tipi di Go Wine (culminata con il libro “Autoctono Si Nasce”) e due anni di stretta collaborazione con Paolo Marchi (Il GiornaleIdentità Golose), ha concentrato per un decennio il suo lavoro di cronista del vino per Enogea (2005-2015). Per otto edizioni è stato tra gli autori della Guida ai Vini d’Italia de l’Espresso (2009-2016). Nel 2017 ha scritto il libro “Centesimino, il territorio, i vini, i vignaioli” (Quinto QuartoEditore). Nell’estate del 2018 ha collaborato alla seconda edizione di Barolo MGA, l’enciclopedia delle grandi vigne del Barolo (Alessandro Masnaghetti Editore). A gennaio 2019, per i tipi di Quinto Quarto, è uscito il suo ultimo libro “Intorno al Vino, diario di un degustatore sentimentale”.  Nel 2020 sarà pubblicato il suo libro di assaggi, articolazioni e riflessioni intorno allo Champagne d’autore. Da sei anni è docente e curatore di un centinaio di laboratori di degustazione indipendenti da nord a sud dell’Italia.


LEGGI ANCHE