Memorie di un bevitore di vino ufficialmente anziano7 min read

Recentemente hanno spostato l’asticella un po’ più in alto, a 75, e finalmente oggi sono ufficialmente un anziano. Oddio, tutto è relativo: da adolescente mi parevano vecchi quelli che andavano militare, poi quando partii anch’io mi parevano vecchi quelli di quarant’anni, e poi successe ancora, ma ormai avevo capito che tutto era relativo e non ho fatto più simili considerazioni.

Oggi anziché guardare avanti mi viene più da guardare indietro, anche perché di strada ne ho fatta un bel po’. C’è solo l’imbarazzo della scelta per ricordare, ma siccome mi permettono di scrivere su Winesurf provo a ricordare la striscia del mio percorso con il vino.

Infanzia – Adolescenza

Inizio abbastanza presto, quando nell’infanzia andavo nella cantina della Fattoria degli Acquisti ai tempi della vendemmia. Inizialmente il gioco era di spillare un po’ di dolcissimo mosto, poi cominciai ad aspettare che i mezzadri arrivassero con il carro tirato dai buoi maremmani. Sopra c’erano i bigonsi ( o bigonci, cioè contenitori in legno usati in passato per vendemmiare .n.d.r.) con l’uva appena vendemmiata. Gli andavo incontro fino al bivio della Croce e poi salivo sopra per poter ammostare con il batacchio l’uva raccolta.

Era divertente veder venire su le bollicine del mosto e ancora più bello sentire quel profumo che poi si trasferiva in cantina: qui iniziava una trasformazione in profumi meno dolci, ma più complessi e pungenti.

A noi ragazzi era permesso assaggiare qualche bicchierino di mosto, senza esagerare con pericolo di corpo sciolto, così dicevano. Ma si poteva bere anche la pimpa, un miscuglio di  vinacce e uva fortemente pressate (il termine che si usava era “strette”) e mescolate a acqua. Non era un granché, ma si aveva l’illusione di avviarci a bere il vino.

In casa mia non si beveva un granché il vino:  babbo spesso l’annacquava, d’estate addirittura con la spuma, mio nonno con l’acqua Vichy. L’unica era mia mamma che quel poco che beveva non lo annacquava mai. Ma lei era di origine contadina e rispettava la tradizione di famiglia.

Insomma in casa mia non avevo degli esempi edificanti. Andava meglio dai miei zii contadini in Vallerotana, che un poco di vino essendo mezzadri lo facevano in proprio.

Il vino del contadino non era allora qualcosa di speciale, anzi. Inizialmente magari un po’ dolce, poi un po’ asprigno, per divenire nel tempo sempre peggio. Ma se uno lo beveva tutti i giorni “ci faceva la bocca” e non si accorgeva che schifezza stava bevendo.

Con il vino bianco era anche peggio, perché il vino “vergine” pareva un lusso, una curiosità, e non lo faceva quasi nessuno. Per vino “vergine” si intendeva la fermentazione del mosto senza bucce. Il colore del bianco aveva normalmente il tipico colore del liquido che ognuno di noi giornalmente produce ed espelle.

Il primo vino, veramente vino e veramente buono lo assaggiai in fattoria. I proprietari, conti Guicciardini Corsi Salviati, avevano tenute anche in altre zone della Toscana e ricordo che quel vino veniva dalle parti di Gargonza e di Lucignano.

La svolta fondamentale del vino si ebbe nei primi anni ’60 con l’avvento delle Cantine Sociali. Queste ovviamente si avvalevano dell’opera di agronomi e di enologi e le cose cambiarono radicalmente. Perlomeno a livello di difetti nella produzione e nella conservazione.

I vini di allora in Maremma, seppur DOC, avevano circa 12° e assai raramente 12,5° , mentre i vini da tavola si attestavano su 11° o 11,5°. Allora iniziarono ad essere usati i “bottiglioni” da 1 litro e mezzo con tappo a corona.

Sul discorso enologi Inizialmente i contadini rifiutarono queste novità e sostenevano che loro mai e poi mai avrebbero fatto il vino con le “bustine”. Piano piano però cominciarono a portare dei campioni di mosti in fermentazione all’enologo che si era stabilito in paese, ma dicendo che era un campione di un loro amico e che voleva sapere cosa avrebbe dovuto fare. Ci volle del tempo, e non poco, per affidarsi davvero ad un tecnico, un enologo.

Il primo vino del cuore lo assaggiai in occasione di una gita fatta a Levane, dove andai con il mio camioncino Wolkswagen carico di damigiane a prendere l’acqua per conto di un mio amico, che mi aveva accompagnato.

Per ringraziarmi del piacere che gli stavo facendo, una volta caricata l’acqua nelle damigiane, sulla via del ritorno volle offrirmi la colazione nel centro del paese. Pane dal fornaio, un bel po’ di prosciutto affettato e poi in un’osteria seduti con un bel fiasco di Chianti davanti. Io il Chianti l’avevo visto scritto, ma mai visto da vicino e men che mai bevuto.

Fu un vero colpo di fulmine, roba mai sentita prima! Un bellissimo colore, un profumo inebriante, e perfino quel che si diceva “saper di mammola”.  Era il Chianti ante modernizzazione e a me piacque da morire.

Ma il fiasco non entrò mai in casa mia, solo il bottiglione da un litro e mezzo.

E ora mi faccio il vino da solo!

Più tardi con i soci dell’azienda dove fabbricavo macchine e attrezzi agricoli decidemmo di acquistare un tino in cemento da 20 quintali per fare il vino. L’idea era quella di farne poi bottiglie da regalare ai clienti per Natale. Nessuno di noi tre aveva esperienza diretta per farlo e la cosa abortì senza aver vinificato nemmeno una volta.

Mi offrii di prendere il tino per fare il vino per casa con i miei due fratelli. Lo presi e acquistai subito una diraspatrice con motore elettrico e un torchio manuale. Ovviamente il tutto corredato da un discreto numero di damigiane, pompa in bronzo e tubi per rimontaggi e travasi. L’enologo stava in paese e mi feci dare consigli. Per l’uva presi informazioni in giro e per diversi anni, quelli in cui feci il vino, lo compravo dove mi pareva che fosse migliore. L’uva era tutta nera e dichiarata come sangiovese. Anche perché a quei tempi di cabernet, merlot e compagnia non se ne parlava proprio.

La cosa prese il verso giusto e divenne un po’ una festa in famiglia, come quando si ammazzava il maiale. Partecipavano in qualche maniera anche le mie figlie che all’epoca avevano intorno ai dieci anni e per stare al gioco gli facevamo pestare un po’ di uva con i piedi.

Il vino a noi piacque e si continuò a farlo così per un bel po’ di tempo, ma senza i piedi.

Un aneddoto al volo. Mio cognato, il Cecchino, mi disse che il suo anziano suocero di Caldana continuava a fare il vino in casa, pur non essendo contadino, comprando l’uva come facevo io. Ma non aveva diraspatrice e si arrangiava come poteva, così mi chiese se potevo prestargliela per la sua vendemmia. Naturalmente gli dissi di sì. Poi Marsilio venne a ringraziarmi felice come una Pasqua. Gli chiesi se era soddisfatto della macchina e mi disse che non c’era confronto. Certo, gli dissi io, eliminare subito i raspi è una bella comodità. “Come no- rispose lui-viene un bel monte di tutti i raspi ben puliti che posso mettere nel mosto!” “Come?- chiedo io- Metti i raspi nel mosto in fermentazione?” “Certo! – mi rispose convinto lui- Se no la sostanza chi gliela da al vino?” E qui mi fermo.

La soddisfazione era tanta, ma anche l’ammattimento era tanto. E poi il vino era perfino troppo e non era certo un grande affare andare a regalare il surplus. Finchè un mio amico che l’aveva provato mi disse che sarebbe entrato volentieri in società. La cosa si fece ma fu poi l’occasione buona per poi smettere.

Avevo imparato ad arrotondare un po’ i gradi aggiungendo zucchero. Mica lo vendevo, quindi era tutto ok.  Così feci anche quell’anno, ma l’anno era il 1985 e di zucchero non ce n’era certo bisogno, senza contare che la vendemmia fu fatta a fine ottobre! Infatti non riuscii ad eliminare tutti gli zuccheri e venne fuori un vino abbastanza buono, molto forte e molto dolce! In pratica quasi imbevibile. E qui fini la mia carriera di vinificatore.

Segue…

Roberto Tonini

Nato nella Maremma più profonda, diciamo pure in mezzo al padule ancora da bonificare, in una comunità ricca di personaggi, animali, erbe, fiori e frutti, vivendo come un piccolo animale, ho avuto però la fortuna di sviluppare più di altri olfatto e gusto. La curiosità che fortunatamente non mi ha mai abbandonato ha fatto il resto. Scoperti olio e vino in tenera età sono diventati i miei migliori compagni della vita. Anche il lavoro mi ha fatto incrociare quello che si può mangiare e bere. Scopro che mi piace raccontare le mie cose, così come a mio nonno. Carlo mi ha invitato a scrivere qualche ricordo che avesse a che fare con il mangiare ed il bere. Così sono entrato in questa fantastica brigata di persone che lo fanno con mestiere, infinita passione e ottimi risultati. 


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