Memorie di enologia selvaggia4 min read

Mio nonno viveva a Segnacco ( comune di Tarcento, provincia di Udine ), dove coltivava due campi e un vigneto . Il suo vino era considerato il migliore del paese.
Si presentava con un colore viola scurissimo, impenetrabile. Versandolo nel bicchiere si otteneva una schiuma rossa alta tre dita.
Non saprei descriverne le caratteristiche organolettiche , non con il linguaggio usuale. Talvolta, molto di rado, mi pare di ritrovarne un cenno, un’ allusione, in un vino attuale, e resto colpito da un flash.. Gradevole, lo ammetto, per un imprinting infantile profondo .
Mio padre, durante le sue visite in qualità di fidanzato, vide la nonna che vendeva bottiglie di vino naif alle vecchie ubriacone del paese, con modalità semiclandestine . Notò che il prezzo ero lo stesso delle bottiglie di chianti gallo nero che avrebbero potuto comprare in un negozio .

Il nonno faceva due vendemmie , una a settembre e una a ottobre . Io partecipavo alla prima, quando ero ancora in vacanza in Friuli – in Ottobre ero già a scuola, a Firenze.
Prima della vendemmia, c’era la preparazione delle attrezzature . Tini e botti, vetusti, color del piombo con venature viola , erano in secca da mesi , avevano spalancato ampie fessure e si erano sconnessi . Venivano annaffiati abbondantemente , e poi riempiti d’ acqua , in modo da far gonfiare il legno e rimarginare le ferite .
Le uve da vendemmiare erano assortite. Penso che per  l’ 80% fossero foxy . Di sicuro lo era l’ uva fragola della pergole ( viti arborescenti, di almeno 30 anni ) e anche quella che veniva chiamata “ibrido”, nata da portainnesti non innestati . Quasi certamente era foxy anche la varietà più abbondante , detta “bacò” ( con
l’ accento sulla “o” ), vitigno mai più visto, perduto senza lasciare memoria . Produceva dei grappoloni cilindrici, serrati come le pigne, lunghi una trentina di centimetri, neri come l’ inchiostro in ogni loro parte .
Il nonno aveva passato qualche anno in Piemonte ( quando gli avevano tolto il passaporto, perché non era iscritto al fascio ,impedendogli di emigrare in Germania ) e ne aveva portato alcune viti ( due o tre ) che lui chiamava “barolo” . Mi ricordo i loro grappoli, ben distinguibili dalle altre : spargoli , con grossi acini ovali . Non avevano nulla di nebbiolo.

L’ uva vendemmiata si pigiava con i piedi , anzi, la pigiavo io, indossando pantaloni da bagno fantozziani, ascellari in tela cerata.
Il mosto fermentava , le vinacce risalivano e noi le spingevamo nuovamente sotto. Ma senza insistere: dopo un paio di volte venivano lasciate a galla, in modo che il vino sotto fosse limpido ( si fa per dire ). E dal di sotto veniva svinato, e poi messo in botte e in damigiana .
Sempre il mio futuro padre fece osservare che in Toscana procedevano diversamente : le vinacce venivano spinte in giù finchè si rassegnavano a giacere stremate sul fondo ( come mai? un aumento di densità ? una violazione spontanea del principio di Archimede ? ), e lì venivano lasciate a lungo .Poi veniva  legato intorno al tino un fascio di scope che faceva da filtro, e il vino veniva spillato attraverso.
Chissà quale dei due sistemi era il migliore .

La vinaccia veniva portata al torchio , proprietà di un vicino . Meccanismo a mano, va-e-vieni , e anche di questa operazione mi occupavo io .
La vinaccia strizzata, raccolta in sacchi di iuta , si poteva portare alla distilleria Candolini , dove la pagavano 1000 lire al quintale, oppure un litro di grappa base.
Siccome non ne valeva la pena, un anno il nonno decise di usarle come concime e le stese sull’ aia ad asciugare. Le galline cominciarono a beccare i vinaccioli, e dopo un po’ giravano barcollando, inciampando ed emettendo suoni strani .
Ma in genere, quando c’ero io in vacanza, a mo’ di premio di produzione, mi mandava a portare le vinacce in distilleria. Un viaggio ameno, attraverso la campagna friulana , sul carro di legno trainato dal cavallone di razza bretone .
Prendevamo la grappa anziché i soldi e lungo il viaggio di ritorno la bottiglia calava di molto . In questo modo presi la sbronza della mia vita, quando avevo 12 anni .
Intorno al letto in cui giacevo semincosciente, si radunarono le vecchie del paese. Erano velate di nero e vestite di nero, come se fossero sicule o sarde. Borbottavano fra loro “… e’ vé nome chel. ! “ ( “e avere solo quello !” nel senso che ero figlio unico e mi davano per spacciato ). Invece mi ripresi alla svelta. Gli anziani saggi sentenziarono :”Non toccherà mai più un goccio d’ alcol in vita sua”.

POSTFAZIONE : Mi tornavano alla mente questi ricordi, mentre leggevo un articolo dell’ immenso Carlin Petrini , in  cui parla degli agronomi, che invasero le campagne e distrussero l’ antica sapienza contadina .
Ma va bene lo stesso : Carlin ,qualunque cosa tu dica , per me rimani un mito .

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


ARGOMENTI PRINCIPALI



LEGGI ANCHE