Egregio dottor Gianni Zonin, incuriosito da una sua frase che rimbalzava sul web, da lei inserita nella Lectio Magistralis e letta durante la cerimonia in cui ha ricevuto la Laurea ad Honorem dell’Università di Palermo, mi sono letto tutto il suo intervento. L’ho fatto soprattutto perché odio giudicare da una sola frase un discorso molto lungo e articolato.
Ho così rivissuto “accanto a lei” se mi è permesso dirlo, tutti i passaggi che dal 1821 hanno portato la sua famiglia ad essere un vero e proprio marchio di riferimento per il vino italiano in Italia e nel mondo, e solo verso la fine mi sono trovato di fronte alla frase incriminata, che vorrei riportare assieme a quelle immediatamente precedenti e successive.
“Il settore del vino in Italia conta 400.000 viticoltori. Però le aziende della dimensione della nostra Casa Vinicola si contano sulle dita di una mano. Il “piccolo” (che era bello negli anni Sessanta, in tutti i settori dell’economia italiana) oggi è diventato un handicap che impedisce al nostro Paese di crescere e competere. Pensate che in Australia le prime tre aziende vitivinicole controllano l’80 per cento della produzione e del commercio di vini di quell’intero Paese e negli Stati Uniti una winery californiana controlla da sola quasi un quarto del mercato americano. Per continuare a competere in questo scenario, i produttori italiani non potranno che attenersi a tre regole:
– produrre vini di ottima qualità (e abbiamo storia, terroir e tradizione e tecnici per farlo in modo eccellente)
– dotarsi di un’ottima organizzazione di marketing e di vendita (e qui forse abbiamo ancora qualcosa da imparare, ma non ci manca né inventiva né fantasia per farlo al meglio)
– disporre di una dimensione aziendale, in grado di ottimizzare gli sforzi, e coniugare ottima qualità ed ottimo prezzo (ed è ciò su cui dobbiamo concentrare tutti i nostri sforzi e le nostre attenzioni).
Solo così il vino italiano potrà affrontare con successo la sfida della globalizzazione”
Al termine della lettura lo sa a chi ho pensato? Al nonno del suo bisnonno che quasi 200 anni fa era, come lei orgogliosamente ricorda, un piccolo produttore (si guarda bene dal chiamarlo contadino…) di uve a Gambellara. Quell’avo era proprio ciò su cui lei ha puntato il dito, il “piccolo e bello” che però dal piccolo è arrivato, generazione dopo generazione al “grosso” di cui lei è il capo.
Capisco, i tempi sono completamente cambiati e quel suo antenato magari non sapeva nemmeno che in America, Australia e Cina si bevesse il vino, però lei stesso dice che ci vuole del buon marketing per andare avanti e non credo che pestare i piedi non tanto agli avi quanto alla stragrande maggioranza dei produttori italiani possa essere definito tale.
Ma in realtà, sotto sotto, io sono d’accordo con lei, specie quando devo chiedere i campioni alle aziende per gli assaggi. Telefonate su telefonate perché o il figlio è sempre nel campo o la mamma è a fare la spesa, o la mail non l’hanno letta oppure non sanno quando imbottiglieranno….bello e semplice invece mandare una mail ad una giovane PR e dopo sette giorni vedersi arrivare i vini a casa. Tutte le volte che riattacco il telefono arrabbiato con un produttore per questi motivi mi viene da dire “Ma dove vogliamo andare con gente come questa?”, quindi La capisco (in parte) quando dice certe cose.
Però, mi permetta, se il vino italiano di qualità, verso la fine degli anni settanta- inizi anni ottanta, è stato conosciuto nel mondo lo si deve a piccole aziende, a piccoli produttori che hanno preso la loro valigia e sono andati a far assaggiare i loro vini a New York più che a Parigi o a Tokio. Il mondo non è rimasto affascinato dal vino italiano che finisce in “ello” ma da quello che finisce in “aia” e se oggi le grandi ( e le piccole) aziende vinicole italiane hanno ottenuto quote di mercato importanti nel mondo dovrebbero come minimo essere grati a quei piccoli-grandi produttori che, senza badare molto al “coniugare ottima qualità con ottimo prezzo” hanno fatto capire cosa può essere un grande vino italiano. Dietro a questo sono andate per il mondo milioni e milioni di bottiglie di vini più o meno buoni ma tutti figli del brand (vede, sono marketing oriented pure io)” Italia, grande terra dove nascono grandi vini”.
E magari tanti enotecari e ristoranti nel mondo preferiscono il vino del piccolo produttore non solo semplicemente perché è più buono (anche se costa un euro in più) di quello del grande produttore, ma perché è più rispondente all’idea che loro hanno dell’Italia, di una terra dove dei contadini (ops, volevo dire produttori di vino) fanno dei vini buoni e spesso ottimi.
Lei a questo punto potrebbe dirmi che ci sono altrettanti ristoranti e enoteche, per non dire responsabili di grandi catene di distribuzione, che guardano al prezzo come prima cosa e anche questo è verissimo.
Vede? Senza volerlo siamo arrivati a definire in maniera molto generica i vari mercati per il vino italiano, quello più di nicchia e quello più portato verso i numeri e il prezzo. Entrambi sono importanti e complementari e spero lei non voglia immaginare un futuro dove qualche “Grande Fratello del vino” gestisca in ogni fascia questo mercato.
Inoltre i piccoli, come lei sa bene, magari non si ricordano di mandare i campioni al sottoscritto, ma sono dotati di inventiva, brio, voglia di crescere e inoltre spesso si raggruppano in consorzi che riescono almeno in parte a sopperire a quelle “dimensioni aziendali” di cui lei parlava.
Ma non voglio dilungarmi più e per concludere confermo il fatto che sotto sotto, la capisco. Dopo una galoppata trionfale come quella che lei ha delineato nella sua Lectio Magistralis non si poteva che arrivare a vedere il mondo ed il futuro dal punto di vista del vincitore, di colui che traccia il solco dall’alto di una grande azienda e quindi si immagina, per crescere, aziende sempre più grandi. Forse è una visione un po’ miope e vagamente pretenziosa, ma pazienza.
Cordiali saluti
Carlo Macchi