Le nuove facce di Bolgheri15 min read

Qualche giorno fa ci è arrivata dalla figlia di Daniele Thomases una mail a cui erano allegati una nutrita serie di articoli. Purtroppo assieme a questi c’era anche la conferma che Daniel non sta bene (cosa che si ventilava da tempo). Il fatto che lui  abbia comunque voluto inviarci in questo momento il frutto del suo lavoro ci riempie di orgoglio e  ci fa sperare che presto Daniel possa tornare a scrivere articoli come questo su Bolgheri, ampio, particolareggiato e “battagliero” come sempre.

Forza Daniel, ti facciamo tanti auguri e ti aspettiamo: un abbraccio.

 

Denominazione di gran moda nel quarto di secolo fra il 1980 e il 2005, nella seguente dozzina d’anni Bolgheri ha vissuto un momento di stasi, di un minore interesse da parte dei mercati che prima accoglievano questi vini, ritenuti di assoluta avanguardia, con grande entusiasmo se non addirittura con grida di gioia.

Le spiegazioni potrebbero essere diverse ma una molto importante è stato ciò che si potrebbe chiamare “il ritorno dell’autoctono”, la riscoperta del valore e dell’importanza del grande patrimonio viticolo, unico al mondo, di cui l’Italia gode. I vini a base delle maggiori varietà bordolesi hanno un po’ stancato, troppi prodotti buttati sul mercato in un arco di tempo piuttosto ristretto, con squilibrio prevedibilissimo fra domanda e offerta. Mettiamoci anche  il fatto – indiscutibile – che la presenza in percentuali significative di uve alloctone in taglio con quelle autoctone ha creato spesso confusione e sicuramente non ha aiutato la riconoscibilità del vino finale e, last but not least, la qualità non sempre eccelsa delle proposte stesse.

Inutile nascondere il fatto che molti nuovi produttori hanno creduto, molto ingenuamente, che bastasse piantare cabernet sauvignon e merlot e uscire, poco dopo, magari con bottiglie offerte a prezzi piuttosto alti, per far quadrare il cerchio. Il fatto che il livello tecnico del lavoro sovente non fosse altissimo, che vigesse la regola in molti casi di fare da soli o con visite occasionali dell’enologo di turno, non ha aiutato in un contesto in cui lavoravano anche figure di grani capacità ed esperienza, i migliori nel panorama del paese.

 

[Una parola a questo punto sul concetto di “autoctono”. Giusto insistere sul patrimonio indigeno nelle tante aree del paese dove queste varietà avevano dimostrato la capacità di dare vini di carattere e personalità. Giustissimo farlo anche  dove qualche nuova casa o protagonista ambizioso aveva proposto qualcosa di nuovo che indicava, in modo egregio, che  vitigni locali erano stati molto sottovalutati e che, con un serio lavoro in vigna e in cantina, potevano essere prodotti vini veramente impressionati. L’esempio di Montefalco, solo per citare un esempio, è davanti agli occhi di tutti.

Ma ci sono pure altri casi che meriterebbero una disamina più profonda e articolata. Uno di grande importanza è il nordest del paese dove, da più di un secolo, nei  vigneti fra Bergamo e la frontiera con la ex Jugoslavia, dominano la varietà francesi sia a bacca bianca che rossa. Uniche eccezioni: la provincia di Verona con la sua corvina e altre uve minori, e il trevigiano con la glera (per il Prosecco). Altrimenti stiamo parlando dei diversi pinot, di chardonnay, sauvignon e via dicendo assieme al cabernet e merlot (e anche il carménère, spesso piantato – causa conoscenze sbagliate – come cabernet franc).  E, visto che stiamo parlando della costa toscana, bisogna ricordare che prima della seconda guerra mondiale, la Maremma era una zona di pastorizia, non di viticoltura o di qualsiasi altro tipo di agricoltura. I diversi torrenti, fiumicelli e fiumi che scendeva dal centro della Toscana creavano ristagni di acqua, acquitrini e paludi, dove si riproducevano a grande velocità le zanzare e, con questo insetto, epidemie di malaria. Non è un caso se l’unica zona viticola storica della costa sia la DOC Morellino di Scansano, con  il paese che ha dato il nome all’appellazione si trova a 500 metri s.l.m. dove il freddo invernale riesce a bloccare la piaga delle zanzare.

In queste circostanze è giusto che le molte cantine fondate dagli anni ’80 in poi abbiano deciso di puntare sulla vocazione – cioè sui vitigni che si adattavano meglio, secondo serie ricerche pedoclimatiche – alle condizioni specifiche dei singoli terreni da piantare. Ed è un fatto che i suoli sabbiosi di una buona parte della DOC Bolgheri non si prestino al sangiovese, uva che storicamente ha dato il meglio di sé in terreni argillo-calcarei con una buona substrato di scheletro, non facile da trovare nel comune di Castagneto Carducci. Anche se chi ha insistito è pure riuscito, soprattutto con le nuove selezioni della varietà, ad ottenere prodotti molto interessanti]

 

Dal 2015 in poi però hanno iniziato a comparire, senza molto clamore, anzi piuttosto alle chetichella, una serie di nuove cantine con proposte molto interessanti e, poiché in certi casi sono anche le prime annate prodotte, offrono prospettive molto allettanti per il futuro della zona. Guarda caso  coinvolgono in molti casi tecnici (sia agricoli e enoici) di prima categoria: di nuovo un buon segno che evidenzia come alcune nuove facce abbiano capito più dei veterani del territorio. Detto naturalmente senza alcuna voglia di polemizzare con chicchessia di Castagneto Carducci e dintorni.

Bando ai convenevoli però, entriamo subito nell’argomento e cominciano di fare nomi e cognomi.

Fabio Motta

Il primo in ordine cronologico è l’azienda agricola Fabio Motta, fondata nel 2009 dopo un apprendistato che risaliva ai diversi anni precedenti durante i quali si era fatto le ossa in campo vitivinicolo. Prima, all’età di 19 anni quando ha fatto la prima vendemmia che l’ha entusiasmato al punto di spingerlo all’iscrizione  ad agraria e portarlo poi la laurea. Sono seguiti cinque anni di lavoro alla cantina di Michele Satta, lombardo di origine come lui sebbene della provincia di Varese, ma bolgherese di adozione. Quasi un destino si direbbe, questione di affinità elettive, di valori e ideali totalmente condivisi: famiglia e fede, vigna e sangiovese.

L’azienda è ovviamente nata piccola con l’acquisto della prima parcella, Le Pievi: con viti ventennali è ubicata ai piedi di Castagneto Carducci e fornisce le uve dei diversi vini rossi. Un secondo vigneto è di più recente acquisto, si trova in località Le Fornacelle dove si coltiva essenzialmente uva bianca, soprattutto il fermentino. Intanto il giovane vignaiolo ha sposato Benedetta Satta e ha messo su famiglia numerosa, e questo non sorprenderà nessuno che conosce l’ambiente.  Azienda familiare in tutti i sensi, dedita alla fatica, all’onestà e al lavoro che valorizza la vita degli uomini e li redime.

Semplice la gamma offerta e con una sua innegabile logica: il Bolgheri Bianco Nova, vermentino con una piccola aggiunta di Viognier, fermentazione di un mese a temperatura decisamente bassa per conservare gli aromi primari. Abbiamo poi il Bolgheri Rosso Pievi, merlot con percentuali minori di cabernet sauvignon e Sangiovese, affinamento in barrique di secondo e terzo passaggio. Segue il Bolgheri Rosso Superiore Le Gonnare, ovviamente il top della gamma, l’85% Merlot con un 15% di Syrah, taglio molto insolito per la zona. Affinamento sempre in piccoli fusti ma questa volta un terzo nuovi, per un minimo di 18 mesi. Non poteva mancare chiaramente un Sangiovese, in questo caso l’IGT Lo Scudiere, a cui viene dato un trattamento molto particolare e ben diverso dagli altri vini: fermentazioni in legno tronco conico, un 25% della raccolta non è diraspata, la macerazione dura ben 30 giorni, l’affinamento circa 12 mesi n barrique usate.

E’ la prova provata che questa terra può dare Sangiovese di livello se si sceglie bene il luogo per piantare la varietà e si vinifica secondo i precisi requisiti dal vitigno. Cosa che, vista la professionalità del titolare e le sue esperienze professionali non mancano. Vini, tutti, eleganti e fragranti, ampi e lunghi ma privi di qualsiasi eccesso, che hanno già trovato il loro spazio sui mercati che contano.

Dievole a Bolgheri

Il nuovo progetto di maggiore dimensioni a Bolgheri è indubbiamente quello dell’imprenditore italo-argentino  Alejandro Bulgheroni i cui successi in campo petrolifero gli hanno fornito l’abbondante capitale che, sin dal 2013, ha investito in diversi luoghi prestigiosi della Toscana. La partenza è stata a Castelnuovo Berardenga con l’acquisto di Dievole e l’obbiettivo successivo è stato Montalcino, dove sono stati aggiunti al portafoglio sia il Podere Brizio sia una serie di vigneti raggruppati e commercializzati con il nome Poggio Landi. Bolgheri ha completato – almeno per il momento – questa campagna condotta a spronbattuto. Scaduto l’affitto di un vigneto importante nella parte meridionale della denominazione, Bulgheroni si è mosso con celerità e l’ha fatto suo. Un programma ambizioso di ingrandimento della superficie è partito quasi subito sotto la supervisione di Lorenzo Bernini, uno degli agronomi più esperti e navigati della Toscana, e la nuova azienda è già diventata una forza commerciale significativa.

La parte enologica è nelle mani di Alberto Antonini, ex Frescobaldi e Col d’Orcia nonché successore di Giacomo Tachis da Antinori e dal 1996 libero professionista, che ha viaggiato il mondo alla ricerca di nuove esperienze e sfide in un ventennio i cui si sono sviluppate idee nuove e, per molti versi piuttosto controcorrenti sia riguardo alla viticolture che l’enologia. Le vigne sono coltivate secondo i dettami della agricoltura organica ma il cambiamento più importante è stato l’abbandono del cordone speronato a favore  del Guyot.

Ancora più radicali sono i nuovi protocolli di vinificazione: solo lieviti autoctoni, fermentazioni e macerazioni ragionevolmente lunghe ma non spinte in modo eccessivo, l’impiego di fermentini tronco-conici di cemento, niente acciaio inossidabile. E,  con una mossa che certamente desterà molto scalpore, solo botti per l’affinamento, niente formati piccoli per le varietà bordolesi.

Al momento la formula sembra funzionare benissimo a giudicare dalle prime proposte, che provengono dalle due diverse realtà in cui è suddivisa l’azienda.  Una linea infatti consiste in quelli provenienti dalla Tenuta meraviglia, con appunto il Tenuta Meraviglia etichettato come Bolgheri Rosso,  mentre la seconda  ha come top wine il Bolgheri Rosso Superiore che porta il nome Tenuta Le Colonne, lo stesso della seconda realtà aziendale nonchè il toponimo della sottozona di Castagneto Carducci dove la tenuta è ubicata. Entrambi i vini si basano sul Cabernet Franc, decisione azzeccatissima a giudicare dai più recenti risultati raggiunti in zona da questa varietà. Il cabernet franc è uva di cui Antonini ha una lunga esperienza, a partire dalla metà degli anni Novanta quando la vinificava alla Tenuta Guado al Tasso.

La Madonnina

C’è una certa presenza russa sulla costa toscana ma sinora si è concentrata sui luoghi di villeggiatura, soprattutto su posti storici e prestigiosi come Forte dei Marmi. A Bolgheri però da una quindiicina di anni, c’è una partecipazione in una delle tenute più storiche e importanti, non solo della denominazione ma anche di tutta la Toscana.

Di recente tuttavia è comparsa una nuova cantina, piccola ma ambiziosa, dove il proprietario, Konstantin Nikolaev intende sfidare i grossi nomi della zona e si è attrezzato a farlo. L’azienda si chiama La Madonnina e si trova fra Le Donne Fittipaldi e Le Macchiole, non lontano da Ornellaia, chiaramente in una delle zone più vocate della denominazione. I primi vini sono stati vinificati altrove, in una cantina importante della DOC e i primi risultati hanno iniziato a circolare sebbene in modo molto limitato. Si trovano comunque nella buona ristorazione del circondario.  L’operazione è su piccola scala, gli ettari vitati poco più di cinque e la vigna stessa era, prima dell’arrivo di Nikolaev, una delle parcelle  migliori di un produttore molto blasonato di vini bolgheresi.  Scaduto l’affitto pero, non c’è stata un momento di esitazione e la parcella ora fa parte del patrimonio della Madonnina.

La maggior parte della superficie non è iscritta all’albo della DOC e quindi il vino “base”, molto buono fra l’altro, esce come un IGT Rosso Toscana. In preparazione c’è pure un Syrah in purezza, di grande ricchezza: l’annata 2015uscira verso la fine dell’anno. Non potrà essere commercializzato come un Bolgheri DOC, perché il disciplinare, molto discutibile, limita le percentuali di Syrah e Sangiovese al 60%  cosicché lo Scrio delle Macchiole e questa nuova proposta non possono dichiarare le loro origini. Strano modo di promuovere una denominazione ma meglio soprassedere sulle polemiche, non è questa la sede.

Per arrivare al traguardo prefisso Nikolaev ha pensato di ingaggiare  di Riccardo Cotarella, ben coadiuvato  da Nicola Tantini, il quale ha dedicato il massimo tempo e attenzione al lancio del progetto. I risultati si vedono e Il Bolgheri Rosso Superiore Opera Omnia, quasi tutto Cabernet Sauvignon, è un vino portentoso: grande ricchezza ma altrettanto solidità, profumato, varietale e territoriale. Aggiungerà sicuramente lustro ad una zona i cui vini sicuramente non mancano di prestigio.

Campo al Pero

La storia di questa azienda, nata piccola ma ora cresciuta a 12 ettari vitati (una dimensione non più modesta per la zona, anche per quanto riguarda l’attuale valore fondiario) è piuttosto classica. Non mancano nella denominazione ex agricoltori della zona che, visto il crescente successo e rinomanza dei vini, hanno deciso di specializzarsi nella viticoltura e imbottigliare la produzione dei loro vigneti. Accanto a questi, come in tante altre parti della Toscana, è arrivato un importante numero di persone ambiziose e capaci che volevano cimentarsi con gli altri in questo settore competitivo, attirati pure dalla bellezza dei luoghi e l’amore del bel vino.

Appassionati non necessariamente dotati di esperienze dirette (o persino indirette) con la viticoltura o l’enologia, anzi. Questo è il caso dell’azienda Campo al Pero i cui proprietari, Maurizio Piccoli e Doriana Cerbaro, due avvocati trentini, coppia nella professione e nella vita, che hanno deciso di comprare terra da vite a Castagneto Carducci, trovando ciò che cercavano nella località conosciuta appunto come Campo al pero. Insieme alla terra hanno acquistato pure una “casa”, in realtà  poco più di un rudere in cui cresceva, nonostante il nome del luogo, un fico. Come già detto, gli ettari sono diventati 12 e un ulteriore passo significativo è stato l’arrivo  nel 2015 dell’enologa Laura Zuddas, professionista non solo di grandi doti tecniche ma una veterana della zona, con anni di esperienza in altre cantine di notevole livello.

La gamma programmata è molto ben articolata e diversificata: oltre al bianco (a base di vermentino) e al rosato che ormai quasi tutti offrono, ci sono quattro vini rossi: lo Zephyro, affinato solo in acciaio e il Campo al Pero, classico taglio bordolese affinato in barrique sono i due  Bolgheri d’annata, mentre il Bolgheri Superiore solo cabernet sauvignon e cabernet franc che affina per 15 mesi in barrique oltre a 10 mesi in bottiglia prima della commercializzazione si chiama Dorianae,. In programma, ma non ancora sul mercato il Dedicato a Vittorio, merlot in purezza: la prima annata, la 2017, uscirà nel 2019.

Al momento i vini sono fermentati e affinati nella cantina – molto vicina – di Giorgio Meletti Cavallari. Scelta interessante ma poco italiana la condivisione di spazi e personale: urta con  sospetti e invidie che purtroppo fanno parte del settore mentre, ad esempio, in California è all’ordine del giorno  il fenomeno di diversi produttori che affittano insieme spazi, spesso in un parco industriale, e utilizzano attrezzature comuni come pompe, pigiadisraspatrici, tubi e via dicendo. Il compito in questo caso è reso più facile dall’amicizia e dalla condivisione di valori oltre alla vicinanza fisica delle due cantine.

Il Castellaccio

 Possibile in una discussione su una denominazione citare una cantina che, per il momento, non produce un vino DOC della zona? In questo caso la risposta è sì, anche se solo come segnalazione,  perché i proprietari, già sul mercato con degli IGT di sicuro interesse, si sono attrezzati alla bisogna con un vigneto di cabernet franc già in produzione.

 

[Apro una seconda parentesi per parlare di ciò che si potrebbe chiamare, se fosse un giallo, “lo strano caso del cabernet franc a Castagneto Carducci”.   L’aggettivo è stato scelto perché tutti conoscono il ruolo fondamentale di Giacomo Tachis nella nascita e sviluppo dei vini bolghersi e Tachis ha sempre sostenuto, sia pubblicamente e privatamente, che se si riesce a maturarlo bene il cabernet franc è molto superiore, come uva, al più popolare e meglio conosciuto cabernet sauvignon. Eppure grosse percentuali di cabernet franc non hanno mai distinto il Sassicaia e idem dicasi per quanto riguarda la tenuta Guado al Tasso, dove Tachis ha lavorato fino al 1993.

Decisioni spiegabili dall’aria che tirava in quel momento: la parola d’ordine era “concentrazione“ e la ricerca, alle volte piuttosto frenetica, di questa caratteristica forse ha accecato diversi produttori. Resta il  fatto che continuità e lunghezza, qualità che il cabernet franc ha in abbondanza, dotano i vini a base di quest’uva di grande piacevolezza.

Sia come sia, molto meno comprensibile è la relativa indifferenza alla varietà mostrata dopo l’uscita del Paleo delle Macchiole  e la comparsa in altre zone di vini del calibro del Poggio de’ Colli di Mauro Vannucci (Piaggia). L’ultimo lustro però ha visto un cambiamento di rotta piuttosto drastico e il numero di ottime bottiglie da questo vitigno è cresciuto enormemente.]

 

La Cerretella

La Cerretella è sicuramente una delle realtà più piccole della DOC Bolgheri, ma come ci ha insegnato il detto “piccolo è bello” è probabile  che l’affermazione dei vini possa portare ad una espansione delle superficie vitata. Al momento si tratta di 1,7 ettari di cui 3000 metri a Bibbona, al di fuori della DOC Bolgheri. La parte bolgherese invece è già in espansione ed è vitata a cabernet sauvignon, merlot e syrah, ormai un blend classico nella zona sebbene in Francia l’uva del Rodano non venga impiegata nei tagli bordolesi.

Oltre ai due Bolgheri DOC (Rosso e Vermentino) la linea comprende diversi IGT rossi e bianchi (Vermentino, Rosato, Rosso, Merlot). I produttori stanno puntando molto sul Pretto, il Bolgheri Ross DOC, di notevole livello nel 2013 grazie anche ai consigli di Laura Zuddas, molto a casa in questa parte della costa.  La scheda indica che tutte le varie fasi dalla vigna alla bottiglia sono state studiate dettagliatamente in base alle possibilità e potenziale del luogo e della vigna e dello stile del vino che la casa mira a produrre: diradamento della uva in invaiatura, produzione di 1,5 kg per ceppo, raccolta manuale in cassette piccole con selezione dei grappoli, fermentazione-macerazione di dodici giorni, a temperature fra i 28° e il 30°, fermentazione malolattica e affinamento di quattro mesi in barrique francesi di secondo passaggio. Una descrizione da cui trapela l’obiettivo di fragranza ed eleganza, raggiunto senza difficoltà nel 2013.

La cantina va fiera anche del suo olio  extravergine d’oliva fatto dalle classiche cultivar frantoio, moraiolo, leccino e pendolino: se l’olio è buono come i vini, non c’è alcun motivo per cui non dovrebbe esserne orgogliosa.

 

Daniel Thomases

Semplicemente il giornalista che ha insegnato a molti, se non a tutti, il mestiere. Una delle vere colonne della critica enogastronomica in Italia.


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