La storia di Meleta e dei suoi piccioni (parte seconda)4 min read

Il suo primo vino manco a dirlo si chiamò Pietrello, un sangiovese elegante quanto esile. Ma si inorgoglisce e sperimenta anche gli altri vitigni. Alla fine il vino di punta sarà per un blend di Sangiovese, di Cabernet Sauvignon, di Cabernet Franc e di Merlot.

Da questo uvaggio nasce il Rosso della Rocca che già fin dalla sua prima annata, il 1985, complice un’annata a cinque stelle, ottiene lusinghieri successi. Il primo bianco dal curioso nome di Lucertolo è fatto da uno scontatissimo quanto comune trebbiano.

In un secondo tempo partirà anche con lo Chardonnay e con il  Vermentino e si chiamerà Bianco della Rocca e prende subito un piega interessante. Siamo nella prima metà degli anni 80 e le prime bottiglie prendono la via per l’Italia e per la Svizzera, dove aveva anche una piccola ditta per la distribuzione di vini.

Mi raccontava il dottor Suter che fin da ragazzo, alla vigilia della festività, suo nonno lo portava nella cantina per scegliere il vino più adatto al menu del giorno seguente. Quindi un po’ per passione, un po’ per comodità aveva messo su quest’attività commerciale di importazione di vini francesi – champagne in particolare – che poi allargò a quelli italiani fin da quando usci la sua prima bottiglia italiana.

Ma le vigne sono giovani e il nostro morde il freno.

Si sfoga con i piccioni avendo frattanto acquistato una prima serie di voliere. Queste erano formate da una struttura metallica all’interno della quale erano posizionati trenta nidi per altrettante coppie di piccioni. Mangiatoie con piccoli silos, acqua corrente per bere e per fare il bagno, vaschette per i sali minerali e per le ostriche macinate, tutto era messo a disposizione dei piccioni per una loro migliore sistemazione.

Questi piccioni erano destinati a divenire non solo i più famosi d’Italia ma anche di piazze estere come  Svizzera e Inghilterra, dove venivano esportati tutte le settimane.

Ogni grande cuoco dopo averli provati rimaneva incredulo dalla bontà di questi volatili. Si è poi discusso come ciò è stato possibile, e cioè qual’era il segreto per fare dei piccioni così buoni.

Non c’era un segreto, ma tanti piccoli segreti: sostanzialmente c’era una differenza di base su come concepire e gestire l’allevamento.

Normalmente i piccioni allevati nei poderi sono alimentati con gli avanzi di magazzino, sia di grano che di granturco o cos’altro è disponibile. Si può dire che siano marginali nell’economia domestica in quanto riescono ad utilizzare in qualche maniera mangimi che nemmeno ai polli vengono dati.

Anche chi prendeva ad allevare razionalmente i piccioni non si discostava molto da questa logica: veniva dato il minimo indispensabile e questo doveva bastare.

 

A Meleta fin dall’inizio i piccioni dovevano avere il meglio in fatto di mangimi. Si fecero studi, si consultarono testi e tecnici un po’ dappertutto, ma lo scopo era sempre lo stesso: dare il meglio per ottenere il meglio. Mai come in questo caso valeva il detto: sei quello che mangi. Cioè se mangi male ottieni “male”, se mangi bene ottieni “bene”.

Io stesso quando spiegavo in cosa consisteva questa dieta e con quale criterio veniva fatta portavo un esempio. Dicevo che i piccioni in libertà volano tutto intorno nei terreni circostanti, anche lontani dal proprio nido, alla ricerca dei semi che via via il territorio dà nelle diverse stagioni.

È la scelta di tutta una serie di semi che dà al piccione libero un sapore ed un gusto più buono, avvicinandosi al gusto della cacciagione proprio per il tipo di alimentazione.  Il limite di questa situazione è che questi semi  non sempre sono disponibili nei terreni agrari vicino all’allevamento. Un esempio classico sono le vecce che normalmente sono considerate delle infestanti e solo in certi situazioni o in certi paesi del mondo vengono coltivate per essere consumate.

Noi con i nostri piccoli silos potevamo dare  non solo semi adeguati e di prima scelta tutto l’anno,  ma con una varietà che nemmeno in libertà era possibile trovare. Perché il mais, il frumento, i piselli, il sorgo, la veccia, il girasole, le favette, venivano un po’ da tutte le parti del mondo: dall’Italia alla Turchia, dall’Argentina ai paesi dell’est, e giù fino all’Australia.

E questo nessun piccione in libertà poteva permetterselo.

Roberto Tonini

Nato nella Maremma più profonda, diciamo pure in mezzo al padule ancora da bonificare, in una comunità ricca di personaggi, animali, erbe, fiori e frutti, vivendo come un piccolo animale, ho avuto però la fortuna di sviluppare più di altri olfatto e gusto. La curiosità che fortunatamente non mi ha mai abbandonato ha fatto il resto. Scoperti olio e vino in tenera età sono diventati i miei migliori compagni della vita. Anche il lavoro mi ha fatto incrociare quello che si può mangiare e bere. Scopro che mi piace raccontare le mie cose, così come a mio nonno. Carlo mi ha invitato a scrivere qualche ricordo che avesse a che fare con il mangiare ed il bere. Così sono entrato in questa fantastica brigata di persone che lo fanno con mestiere, infinita passione e ottimi risultati. 


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