La mia Côte des Bar a Modena Champagne Experience13 min read

Ci sono cose talmente sfacciate che ci tolgono l’appetito, invece la privazione può stimolare l’immaginazione, perché ci pone in una condizione di attesa e di speranza. Almeno fino a quando (prima o poi accade) il vento del destino cambia il suo giro, ripagandoci (con gli interessi) di tanta fatica. È successo pressappoco così alla Côte des Bar, che nelle ultime stagioni sta vivendo un periodo meritatamente felice dopo secoli di pessima reputazione. L’intero dipartimento dell’Aube rimane ancora oggi un bacino di uve, mosti e flaconi sur lattes venduti ai négociant più prolifici della Marna (i due terzi della produzione), ma contestualmente si va facendo strada una generazione di vignaioli indipendenti e motivati. Di quel distretto viticolo posto ai piedi della Champagne – ultimo avamposto dei più grandi spumanti di Francia prima di planare in Borgogna – ho parlato il 7 ottobre scorso, in occasione della seconda edizione di Modena Champagne Experience, avendo il privilegio di confrontarmi con un’appassionata platea di degustatori.

 Ringrazio qui un po’ di persone. Lorenzo Righi, direttore di Club Excellence e infaticabile curatore della manifestazione. Gli importatori, per avermi concesso la possibilità di lavorare nelle migliori condizioni possibili, senza alcuna pressione di tipo commerciale. I sommelier di Ais Modena, per la professionalità e il sorriso che aiuta a stemperare la tensione. Giulia Vecchi, impeccabile nel supporto informativo. Alberto Lupetti, per il privilegio di partecipare alle sue masterclass (nell’attesa di leggere il suo libro, in uscita a breve). E i tanti amici, colleghi e appassionati che hanno scelto di partecipare ai miei laboratori: tra questi, il mio pensiero più forte è per Vania*, specialista di Champagne, donna e assaggiatrice del mio cuore. A lei dedico il testo che segue (una sintesi del mio intervento modenese), augurandole una carriera e una vita strapiene di tutto ciò che possa desiderare.

Lorenzo Righi

La Côte des Bar è terra al crepuscolo. Crepuscolare il nome del suo dipartimento (Aube sta per alba); crepuscolare la sua posizione geografica (a sud del sud, perché c’è sempre un estremo sud di qualcosa); crepuscolare la presenza umana (al punto da diventare episodica); crepuscolare il vino che qui si produce. In verità lo Champagne è sempre un vino crepuscolare, ma se quello della Marna ricorda lo spettacolo un po’ malinconico del tramonto in autunno, quello dell’Aube rimanda al biancore dell’aurora e strappa un sorriso di tenerezza.

La Côte des Bar è Champagne opposta rispetto all’iconografia classica della regione, all’aneddotica più diffusa, alle vicende e alle leggende che della Champagne ci vengono raccontate. Ad esempio, rifiuta il lusso e la confezione sgargiante, nascondendosi in una bellezza sobria, contadina, anche a dispetto del regale Pinot Noir, varietà egemone da quelle parti.

La Côte des Bar sta a ridosso di un confine. E come in tutti i luoghi dalla geografia precaria si coagulano emozioni, sentimenti e sguardi diversi. Diversità (climatiche, orografiche, ampelografiche, storiche e sociali) che si traducono in Champagne di altra pasta e di altra forma.

A lungo queste differenze non sono state un’opportunità, ma un limite; non aprivano porte e semmai le blindavano, emarginando ciò che era diverso in una nicchia senza speranza, ben al di sotto la linea di confine dell’insuccesso.

Le peculiarità degli Champagne dell’Aube si sono trasformate in un vantaggio – per la regione e per noi bevitori – quando un gruppo di aziende per così dire “seminali” ha cominciato a rompere gli indugi, lavorando con audacia, elaborando spumanti di più spiccato carattere.

Le differenze si sono trasformate in un vantaggio anche quando una critica meno ortodossa e più aperta alle novità ha cominciato a dare credito agli champagne sudisti di nuova generazione. Dopodiché è toccato ai bevitori e al mercato fare il resto, scoprendo che la Côte des Bar non è affatto figlia di un dio minore.

Tra la Champagne del dipartimento dell’Aube, di cui la Côte des Bar rappresenta il principale nucleo enoviticolo, e la Champagne della Marna (quella della Montagna de Reims, della Côte des Blancs, della Vallée de la Marne), la distanza (in termini espressivi) rimane tangibile: se a nord i grandi Champagne esibiscono una personalità autorevole, nell’Aube rivelano un atteggiamento ben più amichevole e informale.

Ma oggi finalmente questa duplice identità regionale rappresenta un’opportunità. Opportunità che i produttori auboise hanno dovuto guadagnarsi con il coltello tra i denti, attraversando periodi tribolati. Prima e dopo le insurrezioni del 1911, prima e dopo il 1927, data che sancisce il diritto del dipartimento a produrre Champagne.

La storia auboise è dunque complicata, decentrata dalle griffe del lusso, dai nomi altisonanti. Una storia che per secoli puzzava di quell’assistenzialismo che ipoteca il futuro anziché costruirlo: perché i vini da taglio si producono in tutto il sud del vino, anche in Champagne.

Una storia difficile che si appresta ad avere però un lieto fine, perché in molti hanno capito che il più sagace dei proverbi cinesi funziona ancora: <<dai un pesce a un uomo e lo nutrirai per un giorno, insegnagli a pescare e lo nutrirai per tutta la vita>>. La vita è valorizzare ciò che si ha, non sfruttare ciò che prima o poi si perderà: è questa la via maestra della nuova generazione di vignaioli auboise. Lieto fine che ci ricorda come le novità non sono mai una minaccia, ma al contrario preservano dalla pigrizia e aiutano a crescere. E la Champagne oggi è una regione ancora più attraente grazie ai tanti ottimi Champagne prodotti nella sua porzione meridionale.

La Côte des Bar è terra talmente fuori mano da essere fuori tempo. Nel senso che il tempo da quelle parti non esiste, si inventa. Prendete la macchina e fatevi un giro lungo la vallata della Senna, da Mussy a Buxeuil passando per Courteron, dalle sette del mattino alle sette di sera di un giorno qualsiasi, e capirete ciò che intendo. Le strade sono identiche ovunque, così vuote che nelle giornate grigie capita di attraversarle senza mai vedere anima viva, sfiorando scenari apocalittici. Andateci per il vino, per incontrare i produttori e magari per fare l’amore nelle condizioni più selvagge, tanto nessuno se ne accorgerà.

Chi si aspetta dalla Champagne il paradiso vinoso del glamour, troverà in Côte des Bar una zona inaspettatamente sinistra: paesi fantasma di legno e di pietra segnati dalle profonde cicatrici delle guerre, vecchi locali frequentati da poca gente che non ride mai, chiese sempre chiuse e una serpentina ammutolita di fiumi, torrenti e canali: l’Aube, la Senna, l’Arce, la Sarce, l’Ource e alcuni altri di minore portata.

Mi piace pensare che la soffice spuma dello Champagne della Côte des Bar si alzi ogni tanto come una nuvola, come vapori di campagna che allargano l’orizzonte. E alzando lo sguardo qui non si vede l’Oceano, ma la Borgogna. Non si ammirano le sontuose cantine di Reims e i borghesi viali di Epernay, ma le minuscole abitazioni dei vignaioli, molto spesso anonime, una attaccata a quell’altra, senza soluzione di continuità.

L’Aube viticola è in una situazione anfibia, bizzarra, che la pone vicina e allo stesso tempo lontana dagli altri posti a cui è prossima, la Marna a nord e Chablis a sud. Questo camminare lungo il crinale di due mondi, di due anime, si percepisce da quelle parti.  E mette il distretto in una situazione di prolifica marginalità e di sospesa serenità, con una fragilità che rende tutto più genuino, con un’inconsapevolezza che rende tutto più sincero.

Olivier Horiot

Lo spirito dell’Aube è dentro gli Champagne che in Côte des Bar si producono: c’è in loro una dimensione paesana, una traiettoria rasoterra, un atteggiamento provinciale che nutre una semplicità senza rimpianti, nel senso che è ciò che mi aspetto, la semplicità, negli Champagne locali.

Cos’è la semplicità per me? È una pacca sulle spalle, un cenno di conforto, un silenzio di sguardi; è stare in casa a piedi nudi, giocare con i tuoi figli a “nomicosecittà”, mangiare pane e olio, sperare che la tua compagna indossi il pigiama di flanella. È qualcosa che ti mette a tuo agio insomma, che ti fa stare bene. “Semplice” non è un aggettivo al ribasso: “semplice” per quanto mi riguarda significa che ciò che vedo e sento, è ciò che vedo e sento, né più né meno.

Se gli Champagne della Marna sono il più delle volte incisivi, tenaci nell’acidità e nell’impeto salino, gli Champagne dell’Aube hanno modi più delicati, armoniosi, adolescenziali. Di quella fase dell’adolescenza in cui cominciano a spuntare i peli e la voce va scurendosi in direzione della virilità.Il loro tono muscolare è leggiadro e li libra in volo, come corpi di danzatori liquidi, portando in dote molte qualità dei bianchi e dei rossi della Borgogna settentrionale, con cui condividono la geologia dei terreni.

Bertrand Gautherot

 La Côte des Bar (la costa delle sommità) sta a due ore di macchina dalla Montagne de Reims. È il settore di gran lunga più vitato dell’Aube, che tuttavia  può contare  sull’apporto viticolo di altre due  isole vitate: Montgueux (a ridosso della città di Troyes) dove si coltivano 200 ettari di vigna; e un frammento viticolo posto a sud del Sézannais (che ne raccoglie altri 100). Zone marginali nei numeri, ma eccezionali nel contesto provinciale, con le marne della Côte des Bar che cedono il passo al gesso (simile a quello della Marna) e il Pinot Noir allo Chardonnay.

La Côte des Bar è il secondo dipartimento regionale più vitato (alle spalle della Marna), con quasi 7800 ettari (nelle mani di 2430 viticoltori) distribuiti lungo 63 comuni. Più dell’84% della superficie coltivata a vigna è dedicata al Pinot Noir, l’11 è dello Chardonnay, il 4% è appannaggio del Meunier. Gli spiccioli che servono ad arrivare a quota 100 sono piantati con le uve più antiche della regione: il Pinot Blanc (qui chiamato anche “Blanc Vrai”), l’Arbanne, il Pinot Meunier, il Petit Meslier e il Fromentau (biotipo locale di pinot grigio). È invece ormai scomparso il Gamay, che fino ai primi del 1900 dominava l’intera l’area.

Il clima è essenzialmente continentale e le temperature annuali sono mediamente più miti della Marna, per contro le gelate primaverili possono rivelarsi devastanti. Non solo: la maggiore piovosità e la matrice argillosa dei suoli innescano alcuni dei presupposti che mettono a rischio la sanità delle uve, soprattutto nelle stagioni più bizzarre. Nella media storica la raccolta del Pinot Noir inizia la prima decade di settembre, quella dello Chardonnay qualche giorno dopo.

La quota delle colline si alza spesso oltre i 200 metri sul livello del mare e l’impasto dei terreni è di origine antica, con una fortissima prevalenza di marne sedimentarie la cui formazione risale al Giurassico Superiore (circa 150 milioni di anni fa), alternando piani geologici del Portlandiano (presenti soprattutto alla sommità dei rilievi) e piani del Kimmeridgiano, che insistono lungo i declivi, di solito parecchio scoscesi a sud-est. La vite pertanto lascia fittonare le sue radici in terre argillo-calcareee ricche di fossili marini (minuscole conchiglie cementate in una poltiglia di color avorio) che regalano agli Champagne locali un’apertura aromatica “bianca”  (benché si tratti spesso di Blanc de Noirs), un’acidità croccante e una verve salina che serve alla causa della beva e della persistenza.

Le giaciture dei vigneti, esclusivamente collinari e come detto caratterizzate da pendenze notevoli, lasciano sguarniti i fondovalle (che invece vengono sovente vitati nel dipartimento della Marna). Il sistema di allevamento più diffuso è il Guyot semplice, ma la potature delle vecchie viti di Pinot Noir è spesso a Cordon de Royat. La densità degli impianti si attesta intorno agli 8000-10.000 ceppi ettaro/ettaro.

Famiglia Fleury

Nonostante la matrice pedologica sia pressoché identica a Chablis, qui si coltiva principalmente Pinot Noir per almeno due ragioni. La prima ha risvolti agronomici, poiché lo Chardonnay ha un germogliamento più precoce che lo sottopone al frequente rischio delle terribili gelate primaverili (da cui peraltro fatica a riprendersi). La seconda ha invece motivazioni storiche e commerciali legate alle esigenze dei grandi produttori nordisti, che qui possono contare su un enorme bacino di uve rosse relativamente a buon mercato. La modesta presenza del Meunier è invece motivata sia dalle buone performance del Pinot Noir (che qui non ha evidentemente la necessità di una spalla di minore talento) sia dal clima locale, che tenderebbe a esasperare la precocità del vitigno.

 La Côte des Bar è divisa in due ulteriori settori pressoché identici nell’estensione: Barsuraubois a est del dipartimento e il Barséquanais a sud-ovest. Il primo ruota attorno al comune di Bar-sur-Aube; il secondo si sviluppa a ridosso del paese di Bar –sur-Seine. Il Barsuraubois è il meno vitato dei due (a favore di una maggiore produzione cerealicola), raccoglie 2422 ettari (sui 7800 complessivi), il Barséquanais è invece la zona più prolifica, con 5480 ettari, un numero infinitamente più alto di récoltant-manipulant e una superficie vitata certificata bio di gran lunga superiore a qualsiasi altro luogo di Champagne. In più, c’è da quelle parti un livello medio della proposta sensibilmente più convincente e una preziosa sensibilità verso le varietà storiche della regione (con alcune cuvée specifiche di eccellente livello). Sempre nel Barséquanais si produce l’unico vino a denominazione d’origine comunale dell’intera regione: il Rosé des Riceys, specialità esclusiva del comune eponimo (il più vitato tra i villaggi champenois con 850 ettari vitati) che nelle mani più educate sfoggia ricami e longevità inediti nel panorama rosatista internazionale.

Samuel Cogliati

Come scrive Samuel Cogliati*, solo tre delle 75 maison dell’Union e 6 delle 66 cooperative della Fédération sono di base nell’Aube, a dimostrazione di quanto i poteri forti abbiano sempre avuto con questo dipartimento una distanza non solo geografica, ma anche politica ed economica. E di certo le fragilità economiche di quel settore, per una tipologia che esige forti investimenti finanziari e logistici, hanno pesato nel corso della storia.

I limiti produttivi della Côte des Bar non sono dipesi dunque dal talento dei suoli, dalla maturità delle uve e dalle caratteristiche dell’ambiente, ma dalla mancanza di una progettualità condivisa dall’intero comparto. Che ha inevitabilmente pesato sulla qualità della proposta, spesso inadeguata al blasone della denominazione.

Charles Dufour

Sì dirà che due secoli in meno di tradizione spumantistica rispetto alla Marna non si recuperano in poco tempo, ma è vero che la Côte des Bar possiede potenzialità enormi, che questa e la prossima generazione di vignaioli sapranno certamente valorizzare al meglio. Non mi meraviglierei affatto se tra un quarto di secolo la Champagne meridionale fosse a un livello qualitativo prossimo a quello dei più attrezzati distretti del nord.

Non so voi, ma io ci credo. Anzi, facciamo così: vi dò appuntamento qui su Winesurf  al 19 ottobre del 2043. Per me sarà un lunedì come tanti altri, giocando a maraffone con gli amici in pensione, mentre Carlo Macchi svernerà beato alle Seychelles. Nel frattempo gli Champagne del visionario Bertrand Gautherot (Vouette & Sorbée) e quelli della famiglia Fleury di Courteron (autentici pionieri del “Bio”) spunteranno quotazioni inimmaginabili. E Cédric Bouchard, Marie Courtin, Charles Dufour Aurélien Gerbais, Valèrie Frison, Olivier Horiot (in compagnia di altri oggi meno noti) saranno considerati produttori di caratura mondiale.

Al 2043, allora.

Puntuali, mi raccomando.

 

*Sono orgoglioso di te.

**Per approfondire l’argomento (e non solo) è indispensabile acquistare l’ultimo libro che Samuel ha dedicato alla Champagne: L’immaginario e il reale, il suo capolavoro. Su Possibilia Editore: http://www.possibiliaeditore.eu/it/product/champagne-limmaginario-e-il-reale/

 

 

 

 

Francesco Falcone

Nato a Gioia del Colle il 6 maggio del 1976, Francesco Falcone è un degustatore, divulgatore e scrittore. Allievo di Sandro Sangiorgi e Alessandro Masnaghetti, è firma indipendente di Winesurf dal 2016. Dopo un biennio di formazione nella ciurma di Porthos, una lunga esperienza piemontese per i tipi di Go Wine (culminata con il libro “Autoctono Si Nasce”) e due anni di stretta collaborazione con Paolo Marchi (Il GiornaleIdentità Golose), ha concentrato per un decennio il suo lavoro di cronista del vino per Enogea (2005-2015). Per otto edizioni è stato tra gli autori della Guida ai Vini d’Italia de l’Espresso (2009-2016). Nel 2017 ha scritto il libro “Centesimino, il territorio, i vini, i vignaioli” (Quinto QuartoEditore). Nell’estate del 2018 ha collaborato alla seconda edizione di Barolo MGA, l’enciclopedia delle grandi vigne del Barolo (Alessandro Masnaghetti Editore). A gennaio 2019, per i tipi di Quinto Quarto, è uscito il suo ultimo libro “Intorno al Vino, diario di un degustatore sentimentale”.  Nel 2020 sarà pubblicato il suo libro di assaggi, articolazioni e riflessioni intorno allo Champagne d’autore. Da sei anni è docente e curatore di un centinaio di laboratori di degustazione indipendenti da nord a sud dell’Italia.


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