La mia Africa, anzi il mio Sudafrica (quarta e ultima parte)11 min read

La possibilità che possiate assaggiare una gamma di vini sudafricana, sufficiente a farvi un’idea di cosa sta succedendo dall’altro capo del pianeta senza recarvi in loco, è scarsa.

 

Da questo punto di vista è una premessa abbastanza frustante per il sottoscritto. Tuttavia, un senso al lavoro svolto potrebbe trovare una sorta di giustificazione qualora decideste di visitare il London Wine Fair dal 22 al 24 maggio. Avreste inoltre l’opportunità di raccontarci il vostro punto di vista.

 

Proseguiamo con le cantine.

 

DEMORGENZON, ovvero The Morning Sun, nome mutuato dalla felice posizione collinare che consente allo sguardo una visione panoramica; l’azienda è a pochi passi da Jordan ed appartiene dal 2003 alla coppia Wendy e Hylton Applebaum. Un passato ad alto livello nella finanza e un odierno  impegno sociale per la promozione dell’integrazione razziale.

Non a caso qui troviamo Richard De Almeida, un ragazzo di colore che ricopre il ruolo di Brand Ambassador.

 

Più che una azienda vitivinicola, sembra un giardino botanico, tale è la varietà e la cura della flora che si estende su oltre 90 ettari a cui si devono sommare i 50 circa di vigneto.

 

Sarà per via della musica barocca che viene riprodotta anche nelle vigne ma i vini, forse per una sorta di naturale senso di rivalsa musicale, hanno più i toni e i ritmi della musica west coast.

 

La vocazione verso i bianchi è evidente, lo Chenin Blanc 2016 (€6,00) è un vino dalla trama leggera, molto fine, con un profilo tropicale e una rinfrescante acidità finale. La versione riserva 2015 è molto più complessa, pietra focaia, fiori bianchi, miele e tostatura in un quadro dove gli oltre 6 gr litro di acidità gli danno snellezza e freschezza.

 

Le due etichette della line Maestro sono, in assoluto, le più coinvolgenti: il bianco 2015 è ottenuto da un insolito blend: Roussanne, Chardonnay, Grenache Blanc, Chenin Blanc e Viognier, da uve raccolte e fermentate separatamente senza lieviti aggiunti sia in legno che in cemento a seconda della varietà. Dopo 8 mesi viene fatto l’assemblaggio e l’imbottigliamento.

 

E’ un vino di struttura generosa, molto agrumato e speziato, legno appena avvertibile smorzato da un finale dal frutto penetrante. Il rosso 2014 è un classico taglio bordolese con l’aggiunta di un quarto di malbec.

 

 Evidenti profumi di ribes e legno di cedro e un palato elegante, fresco con ritorni fruttati.

 

I vini assaggiati sono solo una piccola parte di una gamma molto ampia e curata, frutto della rigorosa progettualità di Wendy e Hylton e della mano felice e leggera di Carl Van der Merwe, il capo del team di enologi.

 

 

TOKARA, pur essendo sulla strada che collega Stellenbosch con Franschooek, sul passo Helshoogte, la proprietà di oltre 100 ha fa parte del distretto vitivinicolo di Simonsberg-Stellenbosch. La vista di Stellebosch e della False Bay è da mozzafiato, come i vigneti disposti a semicerchio che danno un senso di artistico alla viticoltura. L’amore per l’arte è palese, testimoniato dalle copiose e moderne opere sparse nella proprietà e frutto della passione del proprietario G.T. Ferreira.

Tokara fa vini rossi di grande levatura, segnalo il Cabernet Sauvignon 2013 che profuma di bacche scure e more di gelso, rifinito a dovere nei tannini e balsamico nel finale, e il Director’s Reserve 2013, taglio bordolese con l’aggiunta di malbec, vino opulento e generoso nell’alcol che tuttavia non si avverte se non nelle gambe.

 

Tra i bianchi segnalo il taglio tra sauvignon blanc e semillon annata 2014, aromi di frutto della passione, citronella e pan brioche, vino ideale per chi ama il gusto boiseé.

Il Tokara Sauvignon Blanc 2016 invece proviene da una proprietà situata nella fresca Elgin Valley e dimostra come anche il sauvignon blanc possa esprimersi con un profilo aromatico originale conservando al contempo i caratteri varietali, in questo vino ci si trovano fini aromi di salvia, erbe di campo assortite e mela verde, al sorso ha un timbro che occhieggia al salato. Basta attraversare la strada e si può entrare in un altro paradiso.

 

 

DELAIRE-GRAFF, gioiello, anzi gioielli, di nome e di fatto visto che appartiene al gruppo Graff Diamonds che l’acquistò nel 2003 da John Platter (fondatore dell’omonima guida vini). Povera (si fa per dire) in quanto a parco vigneti, solo 22 ha, abbonda invece in lusso. Ristorante stellato, luxury lodge con spa annessa al modesto prezzo di 1.000 euro a notte in bassa stagione, lenzuoli inclusi naturalmente, due eliporti ed una boutique. Vini? Si, ci sono anche quelli, ma che importa? Se sei un bianco puoi passare una giornata intera in questo parco da sogno, ti distendi sul perfetto manto erboso a far niente, poi assaggi 5 o 6 vini con un piatto di formaggi(deliziosi) o di salumi(libidinosi) e spendi una quindicina  di euro.

 

Ho preso appunti sui vini ma, sinceramente, chissenefrega! Qui ho trascorso un pomeriggio alla grande. Pillolina dorata: il Sunrise Brut Méthode Cap Classique.

 

 

REGIONE DI FRANSCHOOEK: la si ragggiunge dopo una quarantina di km da Stellenbosch in direzione est seguendo la R310 e poi la R45.

Dopo la revoca dell’Editto di Nantes in Francia nel 1685, quando il protestantesimo venne messo fuori legge, centinaia di cosiddetti ugonotti fuggirono in Olanda. Molti di loro arrivarono poi in nave al Capo di Buona Speranza. Il governo olandese diede loro delle terre in una valle chiamata Oliphantshoek (Angolo degli Elefanti)  così chiamato a causa delle grandi mandrie di elefanti che vagavano per la zona. Subito dopo la valle divenne nota con il nome di Franschhoek (Angolo Francese) I laboriosi ugonotti diffusero la viticoltura e apportarono le loro competenze enologiche, all’epoca sconosciute ai coloni olandesi. La cittadina oggi conserva con cura ed orgoglio questo importante capitolo della loro storia e parecchi dei suoi abitanti tramandano ancora oralmente commoventi storie ed aneddoti. Le cantine di questa piccola ma significativa regione viticola non sono molte, poco più di una decina, ma tutte di alto livello.

 

BOEKENHOUTSKLOOF: ho avuto il privilegio di assaggiare i vini con una inviata di Decanter ma prima di essere ammesso nella stessa stanza con la scagnozza di Jancis, ho dovuto superare un’ardua prova. Il test si chiama

tongue twister for foreigners winetaster” e consiste nel pronunciare correttamente il nome dell’azienda al primo tentativo. Uno scherzo per me! Comunque, la proprietà è stata completamente rinnovata nel 1993, i vigneti sono stati reimpiantati totalmente adattandoli in maniera più coerente alle singole parcelle, con risultati eccellenti. Inquadrarla non è facile, credo che il loro marketing sia troppo avanzato: fanno capo alla società “scioglilingua per assaggiatori di vino stranieri” quattro brand veri e propri: Porcupine Ridge che fa vini per il consumo quotidiano e largamente diffusi, The Wolftrap, vini semplici realizzati per ricordare l’ambiente selvaggio e la fauna originaria della zona, Boekenhoutskloof, ovvero i vini che hanno in etichetta 7 sedie. In realtà Boekenhout altro non è che il nome di una varietà di faggio locale utilizzato un tempo per realizzare sedie particolari e pregiate. Poi c’è The Chocolate Block, il vino simbolo, il 2015(€ 15) è un rosso impetuoso, generoso nelle note di cocco e ribes, speziato e succoso e dal tatto morbido, merito di un tannino levigato al millimetro. Sorprendenti alcune annate vecchie per tenuta nel tempo ed evoluzione, specie se si pensa al prezzo e al fatto che se ne producono 500.000 bottiglie. Senza dubbio è un’azienda rossista, con due Cabernet Sauvignon targati uno Franschooek e l’altro Stellebosch, un Syrah ed il Chocolate Block, blend a base syrah (71%) a cui si sommano Grenache Noir (15%), Cabernet Sauvignon (8%), Cinsault (5%) and Viognier (1). Molte delle uve provengono dallo Swartland dove ha sede il recente acquisto della azienda Porseleinberg. Tra le regioni vinicole più promettenti, pensando al futuro della viticoltura sudafricana, si deve annotare l’area di Walker Bay, in particolare il distretto di Hemel-En-Aarde Valley, alle spalle del grazioso villaggio di pescatori di Hermanus.

 

La natura dei terreni è completamente diversa dalle altre regioni, il suolo è principalmente argilloso ed è qui che Tim Hamilton Russel, attorno agli anni 70, piantò dei cloni di pinot nero borgognoni. L’azienda, ora in mano al figlio Anthony, dispone di 170 ettari ed ha come vicino di casa la tenuta Bouchard Finlayson, oggi di proprietà del Trust della famiglia di filantropi Tollman. Ho detto tutto: nelle due aziende, ma credo anche nelle poche altre (per ora) attualmente attive, ci si concentra sui due vitigni borgognoni, pinot nero e chardonnay con risultati incoraggianti. Hamilton Russel resta concentrato sui due vitigni, privando la stampa, come ha confessato candidamente, dell’interesse suscitato dai nuovi prodotti. Anche se alcuni amici mi avevano segnalato il suo Pinot Nero (€ 33) personalmente ho ritenuto più interessante lo chardonnay (€ 29).

 

Ovvio, due vini ambiziosi e pensati per arricchirsi di sfumature e dettagli nel tempo, non possono che uscire penalizzati da un assaggio post-imbottigliamento. Resta il fatto che, probabilmente, questa è l’area più promettente di tutto il Sud Africa per il futuro. FINE. Ah, no dimenticavo di condividere con voi alcune considerazioni. Per un italiano amante del vino, come credo di aver già scritto, le regioni vitivinicole del sud africa, in particolare Constantia, Stellenbosch e Franschooek rappresentano qualcosa che assomiglia molto da vicino ad un parco giochi agli occhi di un bimbo. Pura goduria. Ho cercato di stemperare l’iniziale entusiasmo che ho provato d’acchito per quest’area vitivinicola, lasciando sedimentare le prime impressioni, ma le viscere si sono rivoltate riproponendo, in forme più articolate e ragionate le medesime sensazioni.

 

Che sono quelle di un posto dove le persone si recano anche solo per trascorrere una giornata, dove giovani e non più giovani coppie assaggiano vino, si siedono, fanno conoscenza e chiacchierano, poi, se soddisfatti comprano. Mentre da noi i giovani frequentano più volentieri un anonimo centro commerciale, qui li trovi spesso e volentieri nelle cantine. Visitare cantine in Sud Africa non è affatto impegnativo, sono quasi sempre aperte e non serve alcun appuntamento. La ricezione è da oscar, c’è sempre, e dico sempre, personale in quantità sufficiente e molto preparato. Di ogni vino che scegli per l’assaggio ti viene proposta la descrizione completa; vitigno, provenienza, fermentazione, caratteristiche e abbinamento.

 

Molti fanno pagare l’assaggio che poi non viene addebitato se acquisti una bottiglia, o se mangi nel ristorante che quasi sempre trovi annesso alla cantina. In media 6 assaggi (riassaggio incluso) costano 4/5 euro. In genere, a parte alcuni vini molto costosi o prodotti in pochi esemplari, la selezione proposta copre l’intera produzione. Le indicazioni per raggiungere i luoghi sono chiare e le cantine predispongono sempre delle insegne ben visibili.

 

In fondo è loro interesse farsi trovare con facilità. Le strutture di ricezione turistiche, governative e non, forniscono a getto continuo ogni tipo di supporto cartaceo utile. Ogni ingranaggio della filiera è funzionale alla vendita.

 

Probabilmente anche la parte burocratica è meno pesante. Lasciamo perdere il paesaggio arcadico, celestiale, paradisiaco, incantevole, mozzafiato etc etc, che è una condizione data e non imitabile, salta agli occhi un fatto: l’approccio è diverso, diverso l’atteggiamento delle cantine verso il consumatore, diverse le aspettative dei clienti ai quali manca probabilmente il retaggio culturale che caratterizza il consumatore europeo. Molti degli argomenti che da noi animano il dibattito enoico, ad esempio l’uso di lieviti indigeni vs lieviti aggiunti, i vini naturali vs i vini industriali, i viticoltori artigiani vs le cooperative, da queste parti non vengono considerati. Del resto, la figura del viticoltore artigiano non esiste o se esiste è racchiusa in uno zoo. 

 

Chi ha una proprietà si affida a chi ha le competenze per realizzare i vini che ha in mente di fare. Sui numerosi vini che ho assaggiato posso dire che la loro qualità standard è alta.

 

I vini sono puliti, nitidi e identitari con molte punte di eccellenza. Molti di quelli che formano l’attuale generazione di proprietari e di enologi ha studiato in Europa, assorbito le nostre tecniche, e assaggiato i nostri vini. Ed ora combinano queste esperienza con un ambiente che li predispone al business. Hanno una visione più ampia del mercato e delle loro potenzialità, una visione che comincia a dare i suoi frutti. Certo, non hanno un parco vitigni così numeroso e originale come il nostro, ma con le poche varietà che hanno, si stanno facendo valere. La riflessione che vi ho proposto è il risultato di una settimana di assaggi, di una trentina di visite in cantine, di numerosi scambi di idee con la gente del luogo.

 

Di certo non è un’analisi completa e approfondita, solo la sintesi delle mie osservazioni. Che sono e rimango un appassionato del vino.

 

Ma, vivvaddio, viticoltori e consumatori italiani, volete alzare lo sguardo dal vostro ombelico?

Giovanni Solaroli

Ho iniziato ad interessarmi di vino 4 eoni fa, più per spirito di ribellione che per autentico interesse. A quei tempi, come in tutte le famiglie proletarie, anche nella nostra tavola non mancava mai il bottiglione di vino. Con il medesimo contenuto, poi ci si condiva anche l’onnipresente insalata. Ho dunque vissuto la stagione dello “spunto acetico” che in casa si spacciava per robustezza di carattere. Un ventennio fa decisi di dotarmi di una base più solida su cui appoggiare le future conoscenze, e iniziai il percorso AIS alla cui ultima tappa, quella di relatore, sono arrivato recentemente. Qualche annetto addietro ho incontrato il gruppo di Winesurf, oggi amici irrinunciabili. Ma ho anche dei “tituli”: giornalista, componente delle commissioni per la doc e docg, referente per la Guida VITAE, molto utili per i biglietti da visita. Beh, più o meno ho detto tutto e se ho dimenticato qualcosa è certamente l’effetto del vino.


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