Il mistero del Rosso Piceno15 min read

Per la stragrande maggioranza delle persone che si interessano di vino in Italia la parola Montepulciano significa, anzi è quasi il sinonimo di Abruzzo.

E non è difficile spiegare il perché: con  più  di novemila ettari della varietà piantati solo nelle zone DOC e DOCG (per non parlare delle diverse IGT in cui ha un ruolo da protagonista) e produzioni annuali che superano gli 800.000 ettolitri si tratta sicuramente di uno dei vitigni di maggior interesse e importanza per il paese.

Ma il Montepulciano è anche molto presente nelle Marche, infatti lo si potrebbe quasi definire un’uva adriatica, anche se la sua occasionale presenza in altre parti del centro dell’Italia (leggi: Lazio, Umbria, e Toscana) è indubbiamente in crescita. Questo grazie pure al cambiamento del clima, che ora permette una più facile la maturazione di questo vitigno tardivo, ma anche alla viticoltura generalmente migliorata degli ultimi decenni.

A dire il vero – e qui faccio un breve excursus – qualche vigna sparpagliata di qua e di là lungo la costa tirrenica, piantata a volte dagli “immigrati” delle Marche del dopoguerra, ha sempre dato ottimi risultati, vini di alto livello nella Val di Cornia lo dimostrano senza tema di contraddizione. Va da sé che il Montepulciano è sempre stato presente in Toscana per “aiutare” il Sangiovese grazie a quella fonte inesauribile di vino utile che si chiama “Château Bridgestone”, ma quella è un’altra storia.

Per ritornare  alle Marche, altra fonte da lungo tempo di Montepulciano di bella tipicità ed espressione, possiamo solo dire che la regione è stata molto sfortunata nei nomi delle denominazioni dei suoi vini a base della varietà. Hanno solo quelli delle zone di produzione (Rosso Conero e Rosso Piceno le due principali) senza alcuna indicazione che sia il Montepulciano l’uva  di riferimento nella bottiglia.

Non esiste una IGT Marche Montepulciano e a quanto pare è vietato scriverlo pure in etichetta (persino in retroetichetta) anche nel caso delle due DOC sopra citate.

Ho sentito, senza avere alcuna conferma, che questo sia il risultato di un accordo fra le Marche e l’Abruzzo: la prima regione ha rinunciato all’impiego del nome del vitigno mentre la seconda non ha mai pensato a cimentarsi con il Verdicchio, uva che, vinificato sotto il Tronto, potrebbe fare un concorrenza formidabile a quello di Jesi o Matelica.

Uno dei risultati comunque, che non ritengo positivo, è che un certo numero di produttori delle Marche che preferiscono fare un vino rosso importante che impiega solo il montepulciano, siano stati costretti a chiamare questi esemplari “Marche Rosso” e basta. Cioè un vino qualsiasi.

Un esempio classico di  accordo fatto sulla pelle del consumatore, dell’acquirente, al quale invece dovrebbe essere dedicata la massima tutela.

C’è una bella differenza fra un vino al 100% montepulciano, un taglio montepulciano/sangiovese e un sangiovese in purezza, però chi guarda queste bottiglie o sullo scaffale di un enoteca o sulla carta dei vini di un ristorante non ha, al momento attuale, alcuna possibilità di sapere cosa berrà.

Questo non solo è ingiusto ma decisamente penalizzante per il mondo della produzione. E una regione che relega ottimi prodotti all’anonimato più totale non sta operando bene (per utilizzare un eufemismo che batte qualsiasi tipo di understatement anglosassone).

Uno dei fattori più sorprendenti della principale DOC regionale, il Rosso Piceno, è la vastità dell’area in cui può essere prodotto, Inoltre sarebbe logico dedurre dal nome della denominazione che il vino venga prodotto nella provincia di Ascoli  Piceno insieme a quella di Fermo.

invece si può produrre quasi dappertutto in regione, pure nelle province di Macerata e Ancona sebbene, per esempio, Jesi disti 120 chilometri da Offida, che è uno dei centri di produzione di questo vino e sede di una delle due Enoteche Regionali.

Alle volte una certa elasticità nella definizione di una zona di produzione può anche essere compresa e, con molta indulgenza, perdonata, ma qui pare che siamo oltre l’assurdo. Cosa c’entra, ad esempio, con il nome “Piceno” un vino, buono che possa essere, prodotto da uve coltivate e vinificate ad Ostra Vetere?

Indipendentemente delle questioni formali – in primis i confini – questo articolo è stato concepito come un tentativo di comprendere  una questione ancora più fondamentale: la qualità.

E’ stato dettato dal fatto che, nella mia esperienza di degustatore ormai trentennale, ho trovato pochi Rosso Piceno veramente buoni prodotti al nord della provincia di Ascoli Piceno e molto spesso sono rimasto perplesso davanti ad esemplari realizzati nella zona del Verdicchio dei Castelli di Jesi da cantine i cui vini bianchi sono di livello qualitativo e di complessità veramente ammirevoli. Ce ne sono ma sono una piccola minoranza: uno, sul mercato da decenni ha una costanza encomiabile è già stato citato indirettamente nel paragrafo sopra.

Negli anni spiegazioni molto artefatte, sovente addirittura più che fantasiose, sono state offerte per la qualità modesta della maggioranza di questi vini. Una delle principali è meteorologica, secondo la quale la zona anconetana in molte annate vede l’arrivo di piogge molto forti nel mese di settembre, fenomeno chiaramente molto negativo per la raccolta.

Spiegazione che non spiega assolutamente nulla visto che i vini bianchi, le cui uve sono normalmente vendemmiate proprio in settembre, non sembrano patire i supposti effetti diluenti. E curiosamente le stesse uve di montepulciano piantate nella DOC Conero, i cui centri di produzione (Ancona, Numana,  Camerano, Sirolo ecc.) distano solo poche decine di chilometri dalla DOC Castelli di Jesi, non sembrano soffrire da questi fantomatici nubifragi, come se l’area più marittima fosse protetta da un gigantesco ombrellone che impedisce alll’acqua di cadere sul territorio di questi comuni.

Bersi questa frottola  richiede uno sforzo veramente sovrumano, anche se personalmente preferisco bere i buoni vini prodotti sul Conero, unica zona viticola del montepulciano dove i suoli sono calcarei e danno un vino la cui tipicità è indiscutibile e segnati da un altro corpo e da profumi diversi rispetto ai vini le cui uve sono coltivate sulle classiche argille che ospitano la varietà.

Il viaggio

La voglia di capire meglio comunque è sempre stata forte e mi ha spinto ad un breve viaggio autunnale nella zona: mi  ha fornito la possibilità di interpellare tre autorevoli interpreti del vitigno che operano (spesso non solo) nei Castelli di Jesi e riescono sistematicamente ad offrire Rosso Piceno anconetano di alto livello, ampio, varietale, rotondo e capace pure di un buon invecchiamento. Classici, in poche parole e, ben degni di comparazioni con le buone bottiglie di altre zone, seppure privi di voler trasformare il confronto in una gara.

La prima discussione è stata con Giuliano D’Ignazi, il winemaker della Cantina Sociale Terre Cortesi Moncaro di Montecarotto,  enologo preparatissimo e  responsabile della moltitudine di ottimi vini della gamma di questa importante cooperativa, nonché grande esperto del montepulciano che lavora in tre territori distinti: il Conero e il Rosso Piceno anconetano e ascolano.

La versione “Superiore” è prodotto solo nell’ultimo lembo meridionale della regione, mentre quello realizzato dalle uve della provincia di Ancona è un vino fresco, beverino, schietto e sincero ma senza alcuna pretesa di importanza. Categoria, per questa parte delle Marche, riservata alle quattro bellissime bottiglie del Conero Riserva (Cimerio, Montescuro, Nerone, Vigneti del Parco).

Definizioni mie, ma accettate di buona grado e con un sorriso dall’artefice dei vini che ha immediatamente indicato la causa dell’impostazione viticola data a questi vini al disciplinare delle prime DOC regionali. Si tratta di impianti di 2200 mila ceppi per ettaro (all’inizio, con la mortalità che fa parte della vita di tutte le piante, le densità alla lunga non superava le 2000 viti ). Nei confronti i 2700 della Toscana della stessa epoca sembrano quasi la Borgogna.

Da questi impianti si potevano produrre 130 quintali di uva. Poiché la matematica  non è un opinione, non è difficile vedere che la produzione per vite, l’unico criterio che conta veramente ai fini della qualità. era di almeno 6 chilogrammi per pianta. Non c’è varietà di uva al mondo che  matura bene con questi quantitativi in vigna e il montepulciano sicuramente non è l’eccezione.  Parlare di corpo e struttura con queste rese sarebbe una barzelletta. Di maturazione fenolica meglio tacere, non faceva parte del programma dell’Italia centrale all’epoca e gli studi teorici che hanno posto questo concetto in tutte le discussione della buona viticoltura erano ancora di là da venire, e sarebbero arrivati dopo almeno trent’ anni.

Problematiche che non esistevano per i vini bianchi della zona, concepiti e visti come bottiglie destinati a dissetare, rinfrescare e accompagnare i piatti: un fatto alimentare anziché edonistico. Che il verdicchio sia uno dei maggiori vitigni a bacca bianca dell’Italia, un’ottima materia anche per vini ampi, complessi e longevi non entrava neanche nell’anticamera del cervello del mondo della produzione marchigiana  degli anni ’70, ’80 e della prima metà degli anni ’90. Un peccato, ma anche se ci fosse entrato non è detto che una simile presa di coscienza si sarebbe verificata per il Rosso Piceno settentrionale, per quasi tutte le case la parte numericamente meno importante delle loro operazioni.

Più fortunata la sottozona del Rosso Piceno Superiore, interamente nella provincia di Ascoli Piceno, solo in una parte della provincia a dire il vero, ma persino lì la presenza sul mercato di esemplari importanti e convincenti ha dovuto attendere una trentina d’anni ed è stato il risultato quasi esclusivo degli sforzi (come è successo quasi dappertutto in Italia: il legislatore qui come ovunque, ha tardato molto) e delle ambizioni delle singole case.

La possibilità di impiegare il termine “Superiore” ha ovviamente aiutato i produttori a distinguere questa parte della produzione da quella dei vini base. Dunque per la Terre Cortesi Moncaro la politica è, ed è sempre stata, una netta distinzione fra il nord e il sud: i vini semplici in quello, le proposte prestigiose in questo: dura lex sed lex

Ultimo fatto di importanza non secondaria:  i numeri, che dimostrano – e non è una sorpresa –  che la parte settentrionale delle Marche ha sempre puntato sulle uve bianche (leggi: verdiccio) mentre quelle meridionale sulle varietà rosse, in primis il montepulciano ma con una certa presenza pure del sangiovese.

Sarebbe utile però precisare che questi dati sono un po’ generici:  lasciando a parte la categoria Superiore che può essere prodotto solo in una parte (non ben definita a mio avviso, ma questo è un altro paio di maniche, ma ci sono aziende a Ripatransone che fanno ottimo Rosso Piceno da molti anni eppure sono state messe fuori zona in base a non si sa quali criteri), troviamo che la produzione annuale in provincia di  Ascoli Piceno tout court si aggira intorno ai 30.500 ettolitri, cifra alla quale bisogna aggiungere i 6500 ettolitri della nuova provincia di Fermo. Nelle province più al nord invece si producono approssimativamente 5500 ettolitri nell’anconetano  e 3500 ettolitri nel maceratese. Insieme non arrivano ad un quarto della totale produzione di Ascoli Piceno e Fermo, mentre nella sola provincia di Ancona il volume di Verdicchio dei Castelli di Jesi consiste in 135.000 ettolitri, numeri eloquenti che ha convinto molte case – sbagliando secondo chi scrive – a trascurare le potenzialità del vino rosso nel loro territorio.

La fama, il prestigio di una cantina dipende da molti fattori ma poche cose sono più certe del fatto che un produttore di un certo livello dovrebbe offrire vini buoni (relativamente alla categoria e prezzo) in tutta la gamma. E che vini mediocri e insulsi sicuramente non aiutano  nei mercati competitivi e difficili di oggi.

La seconda fermata

La seconda fermata di questo pellegrinaggio marchigiano era a San Paolo di Jesi, uno dei comuni di maggiore vocazione di tutta la DOC Castelli di Jesi secondo molti conoscitori della denominazione, dove da molti anni opera, e molto bene, Enrico Ceci e la famiglia. Cantina poco conosciuta in quanto una buona parte della produzione è venduta direttamente a clienti privati. Ovviamente un ottimo segno: la fidelizzazione si conquista con la qualità, sebbene aggiungo che molti di questi clienti hanno conosciuto i vini durante le vacanze estive nelle Marche e durante i viaggi di andata e ritorno verso mete ancora più a sud.

Sia come sia, una parte della produzione è anche imbottigliata ed è  venduta piuttosto facilmente, altro segno di qualità affidabile.  I Ceci non hanno organizzazione commerciale, i quantitativi non lo giustificherebbero e, anche a causa delle esigenze dell’ economia aziendale, non partecipano a fiere, viaggi organizzati di promozione e via dicendo. Tutto nasce dalla decisione di far parlare come punto di forza la qualità del vino e questa, a sua volta, nasce da il fattore di base di tutti i buoni vini: la viticoltura. Un aiuto fattivo è anche fornito dai consigli dell’enologo Alberto Mazzoni, figura molto impegnata nelle questioni amministrativo-organizzative della regione ma uomo preparato e artefice, in passato e nel presente, di molti ottimi vini marchigiano senza che il suo nome abbia avuto il giusto riscontro pubblico.

Il lavoro dell’azienda, almeno quella fisico, poggia sulle spalle di Enrico Ceci stesso, che fortunatamente sono molto larghe. Con l’aiuto di pochi collaboratori, spesso stagionali, manda avanti tutte le operazioni viticole, dalla potatura sino alla vendemmia. Un lavoro minuzioso e continuo che non contraddistingueva la zona negli anni della grandi produzioni per ettaro ammesse dal disciplinare. Fare la scacchiatura in un momento di rese di 130 quintali/ettaro sarebbe stato totalmente illogico e idem dicasi per un qualsiasi tipo di vendemmia verde in agosto. Operazioni come una defogliazione mirata a dare una maggiore esposizione alla luce delle uve a bacca rossa o erano poco conosciute e quasi mai praticate nel passato e non sono sicuro sia una prassi generalizzata al giorno d’oggi.

In poche parole, mancava e probabilmente manca tuttora in troppi casi la consapevolezza che le uve rosse abbiano altre esigenze rispetto a quelle bianche: nessuno parla di struttura o concentrazione nel caso dei vini bianchi, anche se la riduzione delle rese e la pazienza e il coraggio di spingere la maturazione per ottenere maggiore dolcezza, volume e complessità sono fattori indispensabili  della nascita dei molti Verdicchio veramente buoni. Una presa di coscienza e di conoscenza però che è stata molta meno generalizzata nel caso dei vini rossi, anche in cantine rinomate.

L’ultima visita

L’ultima visita è stata all’ azienda Montecappone, ubicata proprio a Jesi, la capitale in un certo senso simbolica della viticoltura anconetana. Montecappone ha circa un settantina di ettari vitati, e su questi numeri per ottenere i risultati desiderati ci vuole non solo impegno e  buona volontà ma anche programmazione, organizzazione e chiarezza di obiettivi. Tutte qualità fornite dalla famiglia Bomprezzi-Mirizzi che ha rilevato la società  nel 1997 sebbene fosse per loro una specie di ritorno alle origini: l’azienda infatti era stata  fondata alla fine degli anni ’60 dai Bomprezzi. Marchigiani d’origine, i Mirizzi avevano migrato a Roma dove operavano, e continuano ad operare, come enotecari. Esperienza indubbiamente positiva: una conoscenza del mercato, le sue regole ed esigenze, non può nuocere a chi intende lanciarsi nell’avventura della produzione diretta.

La scelta da parte mia di questa casa non era difficile in quanto è stata capace di offrire vini di carattere e personalità sia a base di verdicchio e sauvignon sia di montepulciano e sangiovese. La partenza non poteva che essere dalla vigna con le giuste densità (5500 ceppi/ettaro) nei nuovi vigneti, coltivati, sempre manualmente, con criteri mirati all’ottenimento di uva matura e espressiva. La palizzatura è eseguita in tre fasi diverse (una per ogni copia di fili) ed è seguita dalla sfemminellatura nei mesi di maggio-giugno. La defogliazione è una prassi normale e regolare e,a volte, in annate di produzioni abbondanti, si esegue di un leggero diradamento benché la potatura invernale miri a produzione che difficilmente possono superare, per le uve rosse, il chilogrammo di uva per pianta. La vendemmia avviene solo dopo severi controlli della maturazione analitica/polifenolica.

Un programma annuale impegnativo ma frutto della collaborazione che dura da molti anni
con l’enologo Lorenzo Landi, professionista fra i più preparati d’Italia, laureato in agraria all’Università di Pisa che non esita a dire che è proprio la parte viticola quella che più lo coinvolge e appassiona.

La cantina però è tutt’altro che trascurata anche se non è più vista come il luogo dei miracoli, di trasformazioni inaudite, tecniche che rovesciano le regole di altri tempi. Non ci sono rotofermentatori né macerazioni ultrabrevi e non si pretende che i legni operino metamorfosi mai immaginate prima. Solo cose di ordinario buon senso, in molto casi mutuate dal passato.

I serbatoi sono di misure diverse (80-100-200 ettolitri) per poter fare le selezioni, la struttura è a tre livelli per permettere una serie di operazioni che impiegano solo la gravità e risparmiano l’utilizzo di pompe per muovere o le uve o i liquidi. Come si faceva una volta, la pompa dopotutto è stata introdotta nelle cantine abbastanza di recente.

Utilizzano sia il cemento che l’acciaio inossidabile durante la fermentazione, prova che la tradizione e l’innovazione posso coesistere con grande tranquillità: le fermentazioni sono portate avanti a temperature intorno ai 28°, cioè non sono né fredde né particolarmente calde e durano approssimativamente 7-10 per i vini base ma altri  10-12 per le selezioni e Riserve. La malolattica è assistita da un leggero riscaldamento del vino. L’imbottigliamento dei vini più semplici ha luogo dopo l’estate mentre  vini più strutturati vengono affinati sia in barrique che in cemento: non c’è alcuna voglia di esagerare con il rovere.

Elementare il mio caro dottor Watson si potrebbe dire, ma alle volte la cosa più difficile da vedere e afferrare è ciò che è proprio ovvio. Vorrei comunque sottolineare che le parole usate per descrivere quest’azienda, sebbene si riferiscano in maggior parte alle selezioni, non dovrebbero nascondere il fatto che si dia una grande attenzione a tutti i vini della gamma, compresi i cosiddetti “base”.

Ci sono diverse selezioni di Verdicchio ma tutti fanno una sosta sui lieviti prima dell’imbottigliamento: arrivano mediamente a 13° svolti, alle volte, secondo le vendemmie, a 13,5% vol.   Visto che l’argomento di questo pezzo sono i vini rossi,  ci sarebbe da notare che il Rosso Piceno arriva mediamente a 27 grammi litro di estratto, a volte a 28 , mentre l’Utopia può arrivare addirittura oltre 34!

Non c’è un’attrezzatura speciale o costosa, la cantina è semplicemente funzionale, non è stata disegnata da un architetto di grido per proclamare la voglia di stupire. Si lavora – come in altre cantine della zona – secondo i dettami della buona viticoltura e della buona enologia utilizzando i precetti che ormai sono diffusissimi in tutto il mondo e sono facilmente replicabili senza grossi costi o fatiche immani.

Volere è potere, speriamo che il mercato chieda e che i produttori ascoltino. Soprattutto possiamo dire che anche il Rosso Piceno anconetano e maceratese è un vino veramente buono e sempre più fa parte della gamma dei Montepulciano importanti.

Daniel Thomases

Semplicemente il giornalista che ha insegnato a molti, se non a tutti, il mestiere. Una delle vere colonne della critica enogastronomica in Italia.


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