il cibo delle feste (quando le feste erano feste)6 min read

Dopo la pausa estiva riecco il nostro Granocchiaio con un tema che a lui “garba” parecchio.

 

Prima di tutto si deve chiarire che cosa s’intenda per “cibo delle feste”. Quali feste?  Quella della domenica rispetto ai giorni lavorativi, o le festività importanti tipo Pasqua e Natale. E soprattutto  distinguere quelle di oggi rispetto o quelle di una volta. Le feste di oggi sono sostanzialmente tutte uguali, anzi peggio, certe volte le festività particolari  son come gli altri giorni festivi, i quali, a loro volta, non sono poi così diversi dai giorni normali.

Le vere “feste” erano quelle di una volta, quelle che  ho vissuto almeno fino a tutti gli anni ’60. Poi piano piano  anch’esse si sono scolorite, banalizzate, e poi inflazionate, sempre peggio, fino ad arrivare al punto che oggi  si distinguono solo per qualche aspetto marginale dagli altri giorni festivi. Le feste di una volta erano vere feste per il semplice motivo che durante la settimana la vita era più sobria, per non dire addirittura grama. E proprio nel cibo si notavano bene le differenze.

 

La festa della domenica.

 

Il pane


Cominciamo  da un dettaglio apparentemente secondario, il pane. Il pane veniva fatto una volta alla settimana, di solito il venerdì, e poi durava tutta la settimana conservato nella madia in cucina, dove veniva posto anche il lievito madre rinnovato regolarmente per la volta successiva. Quindi la domenica, il giorno festivo primordiale, offriva già il privilegio di godere il profumo e lo scrocchiare del pane fresco. Dal lunedì in poi era tutto un calare di intensità e solo la maestria delle donne di casa riusciva a valorizzare ogni fase del progressivo degrado di questo alimento, fino agli ultimi giorni , quando il pane era troppo duro e andava a finire in una zuppa o nelle polpette,  inzuppato nel latte e mischiato alle patate lesse, o, se era stagione, in una fragrante panzanella.

 

Il primo

Ma la domenica era anche il giorno della pasta e del sugo di carne. Inimmaginabile pensare di mangiare così durante la settimana, non c’era né occasione né ragione. Poteva succedere in via del tutto eccezionale se capitava un parente che veniva da lontano, e magari non ci si era visti da una vita, sennò non c’era verso, si aspettava la domenica anche se c’era un compleanno infrasettimanale. Niente, si festeggiava  la domenica.Ma com’era questa benedetta pasta col sugo? Devo a questo punto dire che io sono nato e ho passato l’infanzia in campagna, in una fattoria della più profonda Maremma grossetana. Quindi non si faceva la vita da ricchi, ma si stava meglio di  tanti altri che abitavano per esempio in città. In fondo eravamo dei fortunati, perchè avevamo il nostro bravo pollaio con galline, galli e pollastre e persino  faraone e qualche papero. Da qui si ricavavano in quantità le uova, vero baluardo e base di mille preparazioni,  e poi gran parte  della carne che ci potevamo permettere. C’erano anche  i conigli nei loro grandi gabbioni  e anche questi venivano cucinati con una certa frequenza. Già più difficile arrivare a mangiare l’agnello o il maiale. Noi non si poteva allevare né l’uno né l’altro. Quindi queste carni venivano mangiate comprando o barattando qualcosa con il pastore o con i contadini che di maiali ne avevano in quantità.

Per tornare alla pasta con il sugo della domenica, questa  normalmente era la sfoglia con uova e farina e solo dopo un po’ di tempo ci potemmo permettere la pasta secca che allora, a differenza di ora, era quasi una rarità. Almeno da noi.
Per il sugo ci si arrangiava con le interiora del pollo: il fegatino, il ventriglio, ma soprattutto i budellini aperti, lavati e poi fatti a battuto. Magari si poteva rinforzare il tutto  con il fegato di un coniglio e con la  sua testa che, si diceva, dava sapore al sugo, ma in casa mia c’è stato sempre qualcuno che la mangiava.

Dai cinque anni, che è anche l’età a partire dalla quale ricordo bene tutte le cose, io diventai macellaio con la mia nonna Stella e pasticciere con la mia mamma Clari.

Con la nonna inizialmente reggevo per le zampe il pollo già spennato che lei procedeva ad aprire, o sbudellare, come si diceva dalle nostre parti, e di cui poi cominciava a pulire tutte le interiora. Iniziai prestissimo a pulire anche io i budellini che la nonna  mi aveva insegnato ad aprire con la punta di una forbice per  poi farli scorrere sulla lama, e infine  lavare e sciacquare fino a completa pulizia. Con i conigli le cose erano complicate dal fatto che  l’animale doveva essere spellato. Mi chiedevo se mai sarei riuscito a fare quest’opera d’arte. Sì, ci sarei riuscito perché via via che crescevo la nonna cominciava a farmi fare qualcosa, sempre di più,  fino a quando – avrò avuto non più di otto o nove anni – fui in grado di pulire  sia un pollo che un coniglio mentre la nonna lo reggeva e controllava.
Il pomodoro era quello che si lavorava in casa a fine estate quando i San Marzano venivano passati a mano con le macchinette che ci avrebbero poi fornito salsa  e conserva o  concentrato che dir si voglia.

Ora non intendo  star qui a spiegare tutta la ricetta, anche perché gli ingredienti l’ho già quasi tutti detti. Ma insomma, in casa mia si partiva con il soffritto di olio cipolla e sedano. La carne era quella che ho detto, interiora di pollo e di coniglio. Il macinato di vaccina, se c’era, era solo di supporto, non era certo l’ingrediente principale. Un piccolo cartoccino con qualche etto di macinato per una famiglia che era formata all’epoca da otto persone. Poi con il passar del tempo la quantità del macinato  è aumentata sempre di più mentre le interiora progressivamente diminuivano, fino poi a scomparire del tutto.  Che perdita! Che imbarbarimento dei gusti!

Per tornare alle vere feste, c’è da dire che la massima espressione dei primi erano i tortelli, i tortelloni maremmani, quelli con il ripieno di ricotta,  spinaci , bietole e altre erbe come l’ortica e la borragine, e poi uova sale pepe e una generosa dose di noce moscata. Quelli fatti con la sfoglia non particolarmente fine e con il ripieno contornato da un bel marciapiede di sfoglia richiuso dai rebbi della forchetta. Qui il sugo doveva essere di carne e con generosa quantità di olio. Oggi si fa pure lo scempio di condire i tortelli burro e salvia! Quando sento pronunciare o leggo questa possibilità sono preso dalla rabbia e dallo sconforto, io vieterei per legge questi abbinamenti.  È come pretendere di fare le tagliatelle fatte in casa e poi condirle con un filo d’olio e senza formaggio grattugiato, oppure un cacciucco rigorosamente in bianco e senza una puntina di peperoncino.

Segue….

Roberto Tonini

Nato nella Maremma più profonda, diciamo pure in mezzo al padule ancora da bonificare, in una comunità ricca di personaggi, animali, erbe, fiori e frutti, vivendo come un piccolo animale, ho avuto però la fortuna di sviluppare più di altri olfatto e gusto. La curiosità che fortunatamente non mi ha mai abbandonato ha fatto il resto. Scoperti olio e vino in tenera età sono diventati i miei migliori compagni della vita. Anche il lavoro mi ha fatto incrociare quello che si può mangiare e bere. Scopro che mi piace raccontare le mie cose, così come a mio nonno. Carlo mi ha invitato a scrivere qualche ricordo che avesse a che fare con il mangiare ed il bere. Così sono entrato in questa fantastica brigata di persone che lo fanno con mestiere, infinita passione e ottimi risultati. 


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