Il Barbacarlo di Lino Maga11 min read

Per visitare la cantina più vecchia del mondo bisogna andare in Armenia, lasciarsi alla spalle Erevan, la bella capitale minacciata dalla sagoma del Monte Ararat, e dirigersi per un paio d’ore verso sudest, tra mulattiere malmesse e aspri paesaggi vulcanici tipici dell’altopiano caucasico. Si arriva così in un solitario avamposto agricolo al centro del quale si trova Areni, minuscolo paese verdeggiante dove nel 2007 un formidabile team di archeologi scoprì una grotta adibita alla produzione di vino, con tanto di vasca scavata nell’argilla, il cui fondo, leggermente in pendenza, era perfettamente rivolto verso l’imboccatura di un recipiente in terracotta di quasi sessanta litri affondato nel pavimento della caverna.

Per visitare una delle cantine più vecchie d’Italia e la più antica di tutto l’Oltrepò Pavese il percorso è più agevole, ma non meno indimenticabile. L’edificio si trova nel centro di Broni, in una delle tante vie Mazzini degli stradari italici, ma con un’insegna emblematica a scandire tre fatti: che non si tratta di una via Mazzini qualunque; che qui, proprio qui, si produce e si vende il mitico rosso Barbacarlo; che l’intrapresa, mimetizzata in un semplice quartiere residenziale, esiste da ben centotrentadue anni.

A ospitarvi ci penserà il titolare dell’azienda, il Cavalier Maga Lino, come lo chiamano da queste parti. Piccolo ma ancora solido come una bitta da ormeggio, Lino è del 1931 e abita da sempre al primo piano di una casa che è la sua bottega, il suo museo e il suo rifugio. Lo ritrovo nel cortile interno che fuma, un’abitudine lunga ormai settantaquattro anni. Sente i miei passi, alza gli occhi, getta via il mozzicone di sigaretta e mi viene incontro salutandomi con un sorriso accogliente e una stretta di mano energica, sincera.

Mi dice di seguirlo: <<venga Falcone, che si va in casa, così facciamo due chiacchiere>> e mi conduce a piccoli passi in una sala piacevolmente disordinata, riempita di foto d’epoca, di diplomi al merito e di vecchie bottiglie di vino, celebri e sconosciute, che ricoprono le pareti.

Mi accomodo davanti a un immenso tavolone di legno ingombro di carte, riviste, libri e bottiglie, alcune aperte, altre chiuse. C’è spazio anche per pane e salame, non per l’acqua <<che questo non è posto per astemi>>.

Volgo la schiena a un plotone di ritratti importanti (Gianni Brera, Luigi Veronelli, Ornella Muti e chissà quanti altri ancora) e guardo negli occhi quel piccolo, grande uomo che sono contento di ritrovare in buona salute: <<si fa quel che si può>>, mi dice con aria schiva ma meno burbera dei miei ricordi.

Lino parla di tante cose, dei vecchi amici che non ci sono più, dei numerosi appassionati che vengono a trovarlo gratificandolo dal punto di vista professionale e umano, delle infinite battaglie combattute per difendere il Barbacarlo dalla morsa della legge 930 sulle denominazioni di origine e dei suoi vini prodotti “à l’ancienne”, ovvero concepiti nel più rigoroso rispetto della tradizione, definizione spesso utilizzata a vanvera, ma non è questo il caso.

Mi confida che da qui non esce quasi mai, se non per trasferirsi nella vicina sede utilizzata per la vinificazione (un anonimo capannone edificato nel 2000 dove si trovano una dozzina di vecchie botti per la maturazione e qualche vasca di cemento per i travasi), oppure per andare a lavorare in campagna, dove ancora oggi si occupa – insieme al figlio Giuseppe, classe ’66 – del vigneto di proprietà, nove ettari distribuiti su due Cru bronesi di storica reputazione, posizionati l’uno di fronte all’altro, in Valle Maga: da una parte Montebuono, i cui confini ricadono nella sottozona storica del Sangue di Giuda (è qui che nasce il “second vin” dell’azienda, prodotto a partire dal 1963) e dall’altra la collina del Barbacarlo, il cui nome, ormai mitico, rappresenta da cinque generazioni l’intera esistenza aziendale.

Per raccontare la sua storia Lino Maga usa toni pacati, la logica del ragionamento è stringente, la parlata lenta, rauca e silenziosa, il linguaggio è quello usuale e comune di un contadino, la sua voce appena monotona. Le poche volte che tra le mani non ha una sigaretta o una bottiglia da stappare, incrocia le braccia e mi fissa. Silenzioso.

Approfitto di quei momenti per porgli delle domande, a cui però risponde solo in parte, con i suoi tempi e le sue parentesi. Non perché voglia essere elusivo, tutt’altro; semplicemente, dimostra insofferenza nei confronti di quella specie di interrogatorio in cui talvolta può trasformarsi un’intervista.

Ama invece sentirsi libero di sfogliare il suo album dei ricordi, la stessa libertà di approccio con cui ha sempre vissuto il mestiere di vignaiolo e la stessa libertà interpretativa con cui plasma il suo Barbacarlo, il vino più celebre di tutto l’Oltrepò Pavese.

Barbacarlo è da oltre un secolo sinonimo di collina (Porei), di vigna e di vino, e dal 1983, dopo interminabili controversie e lunghe battaglie legali, non è più una delle tre sottodenominazioni della Doc Oltrepò Pavese (insieme a Buttafuoco e Sangue di Giuda) bensì un marchio commerciale che la giurisprudenza riconosce a uso esclusivo della famiglia Maga.

La sua produzione, all’inizio prevalentemente legata al consumo locale, acquisisce una certa costanza produttiva e una maggiore notorietà tra gli anni ’20 e gli anni ’40 del Novecento, quando nonno Luigi Maga e i suoi figli cominciano a proporlo all’estero, dove viaggia in piccole botti da trenta litri, destinato principalmente ai mercati della Svizzera e degli Stati Uniti.

Tuttavia è solo a partire dal 1958, grazie a Pietro Maga, il papà di Lino, che il vino viene regolarmente imbottigliato: da allora tutte le annate sono state commercializzate, sebbene nei millesimi sfavorevoli venga riportata in etichetta, con onestà davvero inusuale, una scritta rossa che confida al bevitore quanto segue: “attese le condizioni atmosferiche sfavorevoli il prodotto non è adatto a lungo invecchiamento”.

I primi problemi per la famiglia Maga arrivano il 17 ottobre del 1970, quando la Gazzetta Ufficiale fa entrare in vigore la Doc Oltrepò Pavese, il cui disciplinare si appropria del nome Barbacarlo, lo trasforma in sottodenominazione e ne consente la produzione in quarantacinque comuni della provincia di Pavia, obbligando i produttori a un invecchiamento minimo in legno di due anni, probabilmente perché << si pensava di farne un vino in grado di concorrere con i rossi italiani più nobili, senza saperee che la croatina non è il nebbiolo, né il sangiovese, e il mio vino deve stare in botte fino alla fine di aprile, al massimo fino alla prima decade di maggio, non un giorno di più. Solo così può durare venti o trent’anni senza problemi>>.

Da allora Lino Maga non ha trascorso un giorno senza lottare per riprendersi il suo Barbacarlo: <<Mi sono appellato ai principi contenuti nella legge per la delimitazione delle sottozone, che stabilivano che l’area del Barbacarlo avrebbe dovuto avere condizioni pedologiche, climatiche e organolettiche comparabili a quelle della collina del Porei. Per questo ho fatto a mie spese tutte le perizie geologiche, chimiche e organolettiche del caso e ho svolto minuziose analisi agli altri sette Barbacarlo nel frattempo posti in commercio, facendomi accompagnare da un notaio per sigillarne i campioni. È vero che ho speso un mucchio di soldi, però i risultati non tardarono ad arrivare: tutti gli esami del caso dimostrarono che il mio vino era diverso dagli altri e ottenni così che la menzione fosse ristretta alla sola vigna originaria. Tuttavia non risolsi il problema, perché i produttori più scaltri, per sfuggire alla normativa e utilizzare ugualmente “Barbacarlo” in etichetta, potevano uscire dalla Doc e usarlo come nome di fantasia. Decisi dunque di reclamarlo come marchio aziendale, facendo causa a mezzo Oltrepò: mi è costato decenni di sacrifici economici e morali, ma alla fine, eccoci qui, il risultato è raggiunto: dentro una bottiglia di Barbacarlo c’è solo Barbacarlo>>. Il resto è storia recente: a partire dalla vendemmia 2003 (millesimo ritenuto non idoneo dalla camera di commercio), Barbacarlo è uscito definitivamente dalla Doc Oltrepò Pavese e viene commercializzato con la più generica Igt Provincia di Pavia Rosso.

L’esistenza della vigna del Barbacarlo è certificata da un atto notarile del 1884, attraverso il quale Carlo Maga lasciò ai nipoti un fondo agricolo chiamato “Porei”: due anni dopo, in occasione della prima vendemmia, la collina venne ribattezzata dagli stessi eredi “Barbacarlo”, in onore del generoso zio (barba, in dialetto genovese).

È dunque dal 1886 che questo nome fantastico, impossibile da dimenticare, è impresso sulle mappe ufficiali del comune di Broni: si tratta di quattro ettari di vigna frazionati in 34 particelle catastali, custoditi da sempre con metodi biologici (non certificati) e insediati sulle impervie alture della Valle Maga, tra i 150 e i 300 metri di altitudine, con esposizione sud-sud/ovest.

Come da tradizione, le tante varietà coltivate rispondono a un’esigenza di complementarietà produttiva, come succede in Valpolicella o a Châteauneuf-du-Pape: qui c’è spazio per croatina (che rappresenta il 55% della superficie, piantata nella parte bassa della collina); vespolina (pari al 20% del vigneto, inserita a mezza costa, sui terreni più caldi); uva rara (in proporzioni simili alla precedente, coltivata alla sommità del Cru); più una piccolissima quota (ogni anno sempre più rarefatta) di barbera, freisa e di altri vitigni ormai dimenticati.

Lino Maga, tra una sigaretta e l’altra, mi assicura che i suoli sono poverissimi e che per tale ragione la resa media per ettaro non è mai superiore ai 35 quintali di uva, ancora meno quando le annate sono particolarmente siccitose, oppure grandigene. Si tratta di terreni accidentati, verticali, asciutti e poco profondi, dalle pendenze importanti e dalla struttura grossolana, prevalentemente tufaceo-ghiaiosa.

Anche l’epoca degli impianti gioca un ruolo fondamentale nel risultato finale: l’età media dei ceppi (potati a Guyot, con uno o due tralci a frutto, a seconda delle vigoria delle singola pianta) è infatti molto alta e se si esclude un parte rinnovata nel 1998, il vigneto oscilla dai 35 ai 55 anni, con un paio di filari che accarezzano il secolo di vita.

Il Babarcarlo è un vino unico e raro, il cui protocollo di vinificazione è pressoché identico da almeno mezzo secolo: macerazione di una settimana o poco più, maturazione in botti di legno di rovere di Slavonia da 20 ettolitri e imbottigliamento (senza utilizzo di solforosa) tra la fine di aprile e la prima decade di maggio, in luna calante, quando molto spesso il vino conserva ancora un po’ di zuccheri residui (per questa ragione il Barbacarlo è un rosso “sulla vena”, più o meno dolce e più o meno brioso a seconda delle vendemmie, delle evoluzioni stagionali e del periodo di stappatura).

L’assemblaggio finale è come detto composto da croatina, che apporta colore, pienezza e robustezza tannica, talvolta un po’ sgarbata; uva rara, dotata di buona verve sapida; e vespolina, parecchio espressiva nel corredo aromatico. Pressoché marginale è infine il ruolo della barbera, che invece primeggia nell’altro rosso della gamma, il Montebuono.

Si ottengono ogni anno dalle 5000 alle 10.000 bottiglie che vengono conservate orizzontali per i primi due mesi <<perché il vino faccia amicizia col tappo>> e successivamente riportare in posizione verticale per il resto della loro permanenza nel magazzino aziendale. La vendita da qualche anno è integralmente affidata alla Velier di Genova (Selezione Triple “A”).

Barbacarlo è un vino difficilmente catalogabile in un unico genere, capace com’è di intrecciare sonorità differenti, ovvero di passare dal tono alto al tono basso con disinvoltura spiazzante, dall’iperbolico all’elementare, dal quotidiano all’eterno.

Ciò detto, nella mia memoria resta soprattutto un’impressione di abbondanza (di struttura e di sapori), di ricchezza (sensoriale ed emozionale) e di energia (una forza senza pari tra tutti i rossi padani bevuti nella mia carriera). Un vino che evoca una grande sfera fatta di un impasto ruvido e irregolare, modellato e rifinito con mano barocca. Il colore è fitto, scuro, profondo e luminoso allo stesso tempo; il frutto è tanto cospicuo quanto sensibile all’influsso degli anni, della temperatura e dell’ossigeno, facendosi ora compatto e spigoloso, ora più dolce e dilatato, ora caldo e avvolgente.

In bocca è sempre un vino appagante, talvolta ruvido e talaltra invece foderato da una patina di zuccheri. Le annate più asciutte, per Lino Maga le meno longeve, sfiorano la severità, mentre quelle più dolci e spumose sono da un lato più lente e storte nella traiettoria (essendo spesso frenate da una breve riduzione e dall’insidiosa congiunzione tra tannini e anidride carbonica) e dall’altro più capaci di evolvere nel tempo, aprendosi in direzione di una complessità originale, che pochi altri rossi italiani possono vantare.

Una complessità a volte ipertrofica e altre trattenuta, ombrosa oppure solare. Una complessità che non è affatto sinonimo di difficoltà a decifrare, semmai di difficoltà a classificare, pertanto chi ha fretta di farlo, passi oltre. Si avvicini invece chi guarda al grande vino come a un manufatto artigiano, mai uguale a se stesso: si passa da rossi abboccati e quasi dolci ad altri secchissimi; da annate che titolano quindici gradi alcolici ad altre che non superano i tredici; da millesimi di vellutata carnosità a edizioni succose e nervose, di stampo nordico.

Mi congedo ripescando il ricordo del più sensazionale tra i Barbacarlo bevuti: quello dell’annata 1990. Una versione teatrale, di antica grandezza greca e di mirabile varietà espressiva. Al naso sprigionava un autentico profluvio di aromi che mettevano in fila pepe, sottobosco, mare, ruggine, liquirizia, agrumi, tartufo e fiori appassiti. E l’assaggio lo svelava pieno nella struttura tannica e allo stesso tempo armonizzato, senza spigoli insidiosi. Nel finale, di non credibile complessità, tornavano le note speziate e se ne affacciavano di più complesse, lasciando spazio al calore e al sale, agli zuccheri (un lampo) e all’anidride carbonica (un flebile prurito). Un vino sontuoso, antico e moderno suo malgrado: nel senso che qui viene così, senza ragioni particolari, a conferma che i vini assoluti, quelli senza padroni e senza tempo, hanno più punti di contatto con la caverna di Areni che con il più attrezzato dei laboratori enologici.

 

Al mio piccolo Fede, per i suoi dodici anni. 

Alla mia piccola Ninni, per i suoi tredici. 

Francesco Falcone

Nato a Gioia del Colle il 6 maggio del 1976, Francesco Falcone è un degustatore, divulgatore e scrittore. Allievo di Sandro Sangiorgi e Alessandro Masnaghetti, è firma indipendente di Winesurf dal 2016. Dopo un biennio di formazione nella ciurma di Porthos, una lunga esperienza piemontese per i tipi di Go Wine (culminata con il libro “Autoctono Si Nasce”) e due anni di stretta collaborazione con Paolo Marchi (Il GiornaleIdentità Golose), ha concentrato per un decennio il suo lavoro di cronista del vino per Enogea (2005-2015). Per otto edizioni è stato tra gli autori della Guida ai Vini d’Italia de l’Espresso (2009-2016). Nel 2017 ha scritto il libro “Centesimino, il territorio, i vini, i vignaioli” (Quinto QuartoEditore). Nell’estate del 2018 ha collaborato alla seconda edizione di Barolo MGA, l’enciclopedia delle grandi vigne del Barolo (Alessandro Masnaghetti Editore). A gennaio 2019, per i tipi di Quinto Quarto, è uscito il suo ultimo libro “Intorno al Vino, diario di un degustatore sentimentale”.  Nel 2020 sarà pubblicato il suo libro di assaggi, articolazioni e riflessioni intorno allo Champagne d’autore. Da sei anni è docente e curatore di un centinaio di laboratori di degustazione indipendenti da nord a sud dell’Italia.


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