I dieci “migliori” vini sfusi della mia vita8 min read

Non si può più resistere! La saga dei migliori 10, declinata in ogni possibile oggetto, idea,  prodotto umano in genere ha non solo contagiato il vino ma ne è diventato strumento portante.

I dieci migliori Barolo, Barbaresco, Brunello, Bordeaux, Borgogna etc  ci vengono propinati giornalmente senza sosta e senza pietà. Tutti naturalmente grandi vini, tutti molto conosciuti e apprezzati, tutti che come minimo non sentono il bisogno di  far parte di inflazione diecine…non se ne può più….

Ma chi sono io per oppormi al progresso? Per questo ho pensato di contribuire al diecismo a modo mio, non con qualcosa che tutti possono starnazzare, ma con una selezione molto particolare e personalissima, quella dei vini sfusi  basilari per me, ma per voi assolutamente introvabili (quasi sempre per fortuna).

 

 

1.       Bianco sfuso del nipote del Povero Schifoso,  primi anni settanta. 

 

Per prima cosa non fatevi impaurire dal nome del nonno, il nipote del Povero Schifoso aveva una cantina quasi (ribadisco quasi) normale. Si parla comunque di un vino che i cultori degli orange wine avrebbero esaltato. Il nipote del Povero Schifoso proseguiva nella tradizione familiare di fare un vino da uve Vernaccia di San Gimignano (diceva lui) per autoconsumo, che purtroppo ogni tanto propinava ad alcuni sventurati. Assolutamente e (oserei dire) quasi preventivamente ossidato, di color giallone paglierone, con sentori neanche tanto vagamente animali della profonda Savana e in bocca tannico, piatto, con retrogusto amarognolo, anzi amaro, anzi amarissimo. Bevuto circa 40 anni fa direttamente in cantina  tra galline starnazzanti. Particolare importante: come molti altri bianchi fatti da contadini toscani in periodo mezzadrile, veniva dato come medicina alle vacche quando stavano male (così imparavano ad ammalarsi).  Voto per cultori orange wine,  10+.

 

 

2.       Chianti di quello che stava ( o sta??)  sulla via per Mummialla, primi anni ottanta.

 

 Non saprei tornarci nemmeno se il signor Google Map assieme a Masnaghetti mi conducessero per mano, ma ricorderò sempre un vinello rosso fresco e scarico di colore, però profumato e esageratamente beverino. Si abbinava perfettamente ad almeno 10 chili di fave e tre forme di pecorino marzolino. Voto per gli amanti dei vini leggiadri durante memorabili merende, 8.

 

 

3.       Bianco di Salina del raccoglitore di cucunci (ovvero capperi), estate 1975.

 

 Nel suo antro si entrava scendendo solo due scalini, ma venendo da fuori e quindi da una luce solare abbagliante sembrava di infilarsi in un buco nero dove una minuscola figura stava seduta su una sedia acconcia, cioè microscopica e mezza rotta. Il suo vino era double face, nel senso che lo potevi bere ma pure mangiare. Se decidevi per la prima scoprivi subito che era dolce e, nonostante la dolcezza, molto alcolico. Lui lo vendeva spillandolo da una botte che era meglio non guardare, ma era profumatissimo e abbinato alla pasta in bianco condita solo con i capperi (comprati da lui…veramente eccezionali), faceva la sua porca figura, specie se avevi 18 anni e fame e sete belluine. Venne usato per il collegamento mistico del 15 agosto con gli altri del nostro gruppo, al mare anche loro ma a 1000 chilometri di distanza, con risultati eccezionali non condivisi però dagli abitanti dell’isola di  Salina.  Voto per chi ha ricordi come questo, 10 e lode.

 

 

4.       Tegolato del neo fiduciario Arcigola, 1991.

 

Più che un vino un vero e proprio attentato! Solo una perfida ma concreta ignoranza enoica poteva indurre un essere  umano a vinificare in damigiana un non ben identificato prodotto rosso per poi metterlo in bottiglia e, udite udite, piazzarlo sul tetto di casa sotto dei coppi per farlo maturare. Il bello era che si trattava di versione spumante, con tanto di bottiglia, tappo di plastica e gabbietta riciclati. Venne stappato per celebrare degnamente la fondazione di una condotta Arcigola davanti a una decina di commensali terrorizzati. Un caro amico ebbe il colpo di genio e, prendendo il coraggio a due mani lo annusò sentenziando “Sa di tappo!” Nessuno osò far notare che il tappo era di plastica. Voto per gli amanti del genere horror , –x² per x che tende ad infinito.

 

 

5.       Valtellina (parecchio inferiore) Inferno dell’Albergo Perego al Passo dello Stelvio, anni settanta.

 

Solo chi consumava 25.000 calorie al giorno tra allenamenti e sciate a 3000 metri poteva pensare di sedersi la sera a tavola e provare a berlo. Sulla “carta del vino” (solo quello c’era) veniva riportato Valtellina Inferno ed in effetti era assolutamente infernale. Acidità (misurata in acido muriatico) prossima a 1000, corpo fantasma, tannini pochissimi ma selvaggi e pure incazzati. Perfetto comunque in abbinamento a marmorei pizzoccheri, scultoree cotolette alla milanese e anche panna cotta da intonaco.  Voto pseudo dantesco “La bocca sollevò dal fiero pasto quel peccator forbendola a’capelli e disse/ma un vino meglio, anche se siamo all’Inferno, non ci sarebbe?”

 

 

6.       Chianti Classico (magari!!) del Gaggelli che comprava in damigiane mio padre,  fine anni sessanta e purtroppo anche tutti gli anni settanta.

 

Prodotto in zona molto buona vicino a Castellina in Chianti era regolarmente il prodotto di scarto che purtroppo un certo Gaggelli (ora morto e sicuramente di stanza all’inferno) propinava a mio padre in damigiane. La situazione peggiorava ulteriormente perché lui lo imbottigliava e lo lasciava a sviluppare  i pochi difetti che gli mancavano in bottiglioni da 2 litri. Era il vino che si beveva a tavola e per questo sono stato astemio fino quasi alla maggiore età. Se comunque abbinato ad acqua minerale Ferrarelle in dosi di 1/10 era quasi sopportabile. Nonostante mio padre se lo sia bevuto per anni è morto alla veneranda età di 91 primavere e scusate se è poco. Voto per non offendere più di tanto la memoria enoica del genitore, 3.

 

 

7.       Vernaccia di San Gimignano del povero Don Pacconi, 1973-74-75.

 

 C’è chi ha il Parroco di Neive e chi Don Pacconi. Sacerdote a cui ero molto affezionato nonostante la mania di voler produrre e vendere Vernaccia di San Gimignano. La comprava regolarmente il padre di una mia vecchia fiamma e della prima annata ho ottimi ricordi, purtroppo sostituiti in fretta da quelli delle due annate successive. Per fortuna la storia con quella ragazza si concluse nel 1975. Quando penso a qualcosa di aspro  mi viene sempre in mente quel vino. Voto 4 anche se Don Pacconi era una gran persona.

 

 

8.       Marzemino (molto) frizzante degli amici vicentini, estate verso la fine degli anni settanta.

 

Una bomba Molotov travestita da vino! La prima bottiglia, regalataci da una insospettabile famiglia vicentina venne allegramente stappata a tavola nella nostra roulotte da mio padre,  senza riuscire a berne una goccia. In compenso  fu la volta che mia madre arrivò molto vicina a bestemmiare mentre cercava di asciugare e ripulire i mobili, i letti, i nostri vestiti da quell’ esplosione vermiglia. Color rosso porpora vivo e indelebile (da qui le bestemmie), le altre tre bottiglie vennero stappate all’esterno con precauzioni degne del trasporto di nitroglicerina e alla fine riuscimmo ad assaggiarlo. Leggermente vinoso, dolcino, si abbinava perfettamente con la siepe davanti alla nostra roulotte. Voto 70.000, tante le lire spese allora in lavanderia.

 

 

9.       Nostratino Garfagnino di Enzo Pedreschi, anni novanta.

 

 L’aver provato qualche volta, nei primi anni della nostra amicizia, a propinarmi quel vino ( a me come a molti altri, anche in questo Enzo era ecumenico) non toglie nulla alla grande figura di Enzo Pedreschi. Del resto anche lui sosteneva che era un vino da bere in quattro, due ti tenevano fermo e il quarto te lo infilava a forza in gola. Un aceto che veniva spacciato per vino fino all’anno dopo, quando era sostituito dall’aceto nuovo. Ma lo berrei tanto volentieri se potesse far tornare Enzo qui tra noi.  Voto 10, perché di meno Enzo e la sua memoria non meritano.

 

 

10.   Rosso da uve di Montalcino dei minatori in pensione del Monte Amiata, secondi anni ottanta.

 

 Nella mia vita, oltre a fare il giornalista, ho anche lavorato e per questo in quegli anni ero spesso in contatto con diversi  minatori in pensione delle ex miniere di mercurio sul Monte Amiata. Loro, come diversi altri anziani della zona, avevano  l’abitudine di andare a comprare dell’uva a Montalcino per poi vinificarla in contenitori di fortuna in casa, qualcuno anche nella vasca da bagno.  Erano orgogliosissimi del risultato e regolarmente me lo  offrivano. La prima volta che questo successe ebbi la dabbenaggine  (cacofonico ma vero) di non trovare scuse tipo “Ho da lavorare non posso bere” e lo assaggiai. Tralascio i particolari degustativi per volervi bene. Da allora accettai sempre con gioia una bottiglia da bermi poi a casa. Abbinamento perfetto, provato più volte, con il lavandino della mia cucina. Durante uno di questi abbinamenti ho visto per l’ultima volta un vino affetto da filante. Voto prossimo allo zero assoluto.

 

 

 

 

 

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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