I cibi delle feste. Seconda parte5 min read

I secondi

 

Durante la settimana si andava avanti soprattutto a frittate, ma anche  a  uova preparate in altre cento maniere, come fritte o lesse. Poi tanta verdura e legumi. Al massimo, se la domenica sera era stato fatto il brodo, si poteva mangiare poi nei primi giorni della settimana un po’ di lesso, e se no le inevitabili polpette.

Queste potevano essere in un misto di carne avanzata – lessata o arrosto – ma anche di solo patate e pan bagnato. Così, fritte,  il giorno e la sera,  ma anche il giorno dopo rifatte con la salsa di pomodoro. Eccezionalmente una volta alla settimana poteva passare il pesciaiolo che portava il pesce venendo in bicicletta  da Grosseto con due cassette di legno coperte da due balle di juta bagnata con funzione di refrigerazione.

Da lui si prendevano le sarde da fare alla brace, o le acciughe da fare fritte, i totani che venivano fatti ripieni o i calamari con le bietole e gli spinaci (fantastici), la razza da fare lessa e condita con olio limone sale e pepe, ma anche un cappero non ci stava male. Qualche volta si faceva festa comprando un po’ di frittura di paranza. Il pesce poteva essere anche di fiume, e di questo il mio preferito era la tinca.

 

Ma la domenica, la nostra festa della settimana, finalmente si mangiava carne, e che carne. Spesso ci si metteva il mio babbo che era un appassionato di cucina. Durante la settimana lavorava in officina ad assottigliare vomere e a riparare macchine e trattori, ma la domenica mattina, se non  addirittura il sabato sera, si metteva intorno ai fornelli ed era lui ad inventarsi piatti perfino elaborati.

I più gettonati erano chiaramente gli arrosti, e tanto per cambiare polli e conigli ma  ci poteva essere anche qualche cosciotto di agnello o delle costoline da fare impanate e  fritte. La festa non era  rappresentata solo dai ghiotti arrosti che preparava, era  festa anche la preparazione e la coreografia che cercava di dare ogni volta al piatto.

E così si spiegava il fatto che a Natale il tacchino che preparava arrosto venisse servito a pancia in giù e adornato da qualche penna che accennava il ricordo della coda,  come quella lunga e coloratissima  che invece metteva per intero cucinando il maschio del fagiano.  

La carne di agnello poteva essere fatta sia arrosto che fritta, così come il coniglio. Solo raramente veniva fatto qualche bel pezzo di vaccina, fosse una bistecca o fosse un roast beef per il quale  però a me pareva  ci fosse uno spreco di attenzioni perché era sì  una cosa buona, ma mai come una bella coscia di pollo arrosto o fritta.

 

Questi erano i mangiari delle feste intese come giorno festivo della settimana.

 

 

Il mangiare delle festività

 

 

Quando si trattava invece di vere e proprio festività come Natale o Pasqua tutto diventava più ricco e le preparazioni erano molto più accurate. La prima differenza sostanziale era che in questi pranzi il babbo si scatenava con i suoi antipasti. Crostini di milza o altre salsette che s’inventava, ma anche qualche ghiotto salume di maiale o di cinghiale. Le uova lesse divenivano barchette che lui armava come vere navi con stuzzicadenti a fare da alberi per vele di candido lardo o rigatino ancorate con una oliva verde. La toscanissima pasta di acciughe marca Balena (la migliore da sempre e fino ad oggi) poteva servire a formare i bordi della nave. Ma si sbizzarriva  anche con altri disegni e fregi che tentava di fare sul pane tagliato e modellato in forme geometriche o di fantasia.

Dopo gli antipasti di norma c’erano due primi: uno in brodo e l’altro al sugo, ma anche due secondi che potevano essere un fritto e un arrosto.

A seconda della stagione il fritto poteva essere di carne, generalmente pollo coniglio e se c’era anche qualche piccione, altrimenti un bel fritto di verdure miste, dai carciofi ai fiori di zucca, dagli zucchini alle melanzane, dal cavolfiore ai pomodori verdi.

Poi sotto Natale c’era l’altro segnale inequivocabile: i mandarini. Per me averli a tavola,  con il loro inebriante profumo quando li sbucciavo, significava di sicuro avere la consapevolezza  che era arrivato il Natale. A completare il cerchio c’erano poi  i dolci che per noi erano i cavallucci, il panforte ed i preziosi ricciarelli.

Discorso a parte per i dolci fatti in casa. Questo era il regno della mia mamma. Ma anch’io ero ammesso a corte. Nel senso che preparavo i dolci assieme a lei. Lei rompeva le uova, metteva le dosi di zucchero e poi io con il mestolino di legno cominciavo a girare. “Sempre nello stesso senso!” si raccomandava lei, altrimenti “impazziscono”. E poi a grattugiare la scorza del limone, la farina che via via si aggiungeva, il lievito Bertolini……..

Un passaggio fondamentale era quello dell’assaggio: era ammesso un dito a pescare un po’ di quei preparati ed assaggiare.
E poi a fare la crema con la scorza del limone e poi la cioccolata col cacao, cioè quella vera.

Roberto Tonini

Nato nella Maremma più profonda, diciamo pure in mezzo al padule ancora da bonificare, in una comunità ricca di personaggi, animali, erbe, fiori e frutti, vivendo come un piccolo animale, ho avuto però la fortuna di sviluppare più di altri olfatto e gusto. La curiosità che fortunatamente non mi ha mai abbandonato ha fatto il resto. Scoperti olio e vino in tenera età sono diventati i miei migliori compagni della vita. Anche il lavoro mi ha fatto incrociare quello che si può mangiare e bere. Scopro che mi piace raccontare le mie cose, così come a mio nonno. Carlo mi ha invitato a scrivere qualche ricordo che avesse a che fare con il mangiare ed il bere. Così sono entrato in questa fantastica brigata di persone che lo fanno con mestiere, infinita passione e ottimi risultati. 


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