I bianchi italiani non sono4 min read

Dopo aver letto l’ articolo “Il destino dei bianchi italici? Pessimist! Per Wine Enthusiast il lavandino” dell’amico Giancarlo Gariglio la mia mente è diventata come il cancello appena aperto  di un recinto di cavalli, dal quale tutte le bestie vogliono uscire assieme. Al posto dei cavalli mettete la parola idee e così:

Ma che ca….  dicono questi americani!”/“Ma siamo sicuri che i nostri non abbiano sbagliato a leggere”/“Ma chissà quali vini e quando li hanno assaggiati”/Ma sul mercato americano quante aziende italiane valide propongono adesso bianchi di 6-7-8-10 anni?”/”Ma dove li avranno conservati per tutto questo tempo”/Non è che hanno messo una valutazione a caso tanto noi siamo famosi per i rossi?”/”Magari assaggiano una bottiglia all’anno tenuta nel soppalco di casa e poi giudicano”/.

 

Insomma, come vedete tante idee accavallate che hanno avuto bisogno di tempo per mettersi in riga e uscire allo scoperto, assieme però ad una bella dose di scetticismo perché, al contrario di quanto sostenuto sulla rivista americana,  sono straconvinto che tantissimi bianchi italiani non solo sono vini di grande longevità, ma sono migliori dopo 5-6 anni almeno dalla vendemmia.

 

Come spiegare però la valutazione di Wine Enthusiast? Per me è andata così!

 

La valutazione molto negativa dei bianchi italiani è all’interno di una specie di cruciverba o battaglia navale con una valutazione secca di annate e zone di tutto il mondo. Fare questa che è chiamata “Vintage Chart” è una delle cose più semplici e nello stesso tempo difficili, specie se vuoi rappresentare l’universo mondo. Infatti molte zone sono famose per alcuni vini e non per altri il che, arrivando a bomba, vuol dire che ogni anno, magari due volte all’anno, Wine Enthusiast assaggia Barolo e Barbaresco ma non è detto che degusti anche i bianchi piemontesi. Per non parlare di alcune zone che sono più famose di altre e quindi, magari, il verdicchio viene assaggiato ogni due anni oppure ne assaggiano meno. 

A questo aggiungiamo che certamente valutano il vino giovane, anche perché le aziende, se non lo richiedi espressamente, ti inviano sempre il vino più fresco e non certo vecchie annate. Quindi nell’immaginario collettivo di molti, se non sei molto attento e presente sul territorio, certi vini si ritrovano con caratteristiche derivate dall’abitudine che è dura cambiare, specie se devi assaggiare molto e in molte zone diverse. Così è nata (non senza un motivo) la nomea che i bianchi italiani invecchiano male. Bisogna dire che per una fetta è ancora così, ma molte aziende bianchiste di tutti i territori italici oramai presentano bianchi che iniziano ad essere buoni dopo 2-3 anni (parlo anche di vini base) e migliorano per almeno 7-8 anni.

 

Ma questa è una recente novità anche per noi italiani e non si può pensare che una carta riassuntiva cambi metodologia  di assaggio, cioè vada a prendere i vini assaggiati 6-7 anni fa, li rimetta in pista e dia una nuova valutazione. Se per il loro degustatore il Soave nel 2007 era un bianchino semplice da bere subito, oggi sarà giocoforza un vino finito  o quasi. Diciamo che una volta avviata la macchina è molto difficle, se non impossibile, cambiare qualcosa in corsa.

 

In effetti non me la prendo più di tanto con i colleghi statunitensi, perché una vintage chart è una generalizzazione per definizione e quindi non ci si può scandalizzare se i bianchi italiani escono penalizzati per longevità, perché questa generalizzazione faceva parte fino a poco tempo fa anche delle nostre italiche “credenze” .

 

Ma pur essendo una generalizzazione non bisogna sottovalutarla, anzi occorrerebbe sfruttarla al meglio per affrontare con piglio deciso mercati dove la conoscenza del vino italiano è (in questo caso in teoria) molto elevata, come appunto quello americano.

 

Consiglio quindi vivamente a tutti i produttori di bianchi italici e relativi consorzi e associazioni,  dalla val d’Aosta alla Sicilia, dall’Alto Adige alla Sardegna,di presentarsi sempre sui mercati esteri (oltre a quello italiano) ANCHE con bianchi che abbiano da 5 a 10 anni almeno. Nello stesso tempo chiedo ai colleghi italiani un occhio di riguardo per i bianchi invecchiati, creando occasioni di degustazione, parlandone, riassaggiando. Per noi giornalisti è uno dei pochi campi non ben esplorati del vino italiano e per i produttori potrebbe essere un modo per rinvigorire  l’export con nuove proposte.

 

Tutto questo con calma perché Roma non è stata fatta in un giorno, ma con costanza e soprattutto credendoci, considerando anche (last but not least) che dei bianchi longevi possono spuntare prezzi sicuramente più alti anche per i fratellini più giovani…

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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