Dieci anni fa, il 3 gennaio 2012, ci lasciava Giulio Gambelli. Per me era un amico, un uomo dolce, una persona con cui era bello stare. Mi ha insegnato anche tante cose sul vino ma di più sulla vita, su come prenderla per non farsi prendere, per non farsi trascinare dagli eventi.
Negli ultimi anni era debole ma per niente chiuso in se stesso e sapeva usare perfettamente anche i suoi difetti, come la sordità, gestita perfettamente quando lo cercavano persone che non voleva ascoltare ma che la sua educazione gli proibiva di mandare a quel paese.
Ci eravamo fatti le ultime linguacce (perché in ospedale aveva una specie di maschera e non poteva parlare) da poche ore quando mi chiamarono per dirmi che non era più tra noi. Allora come adesso piansi: ma non per lui che aveva smesso di soffrire ma per me, per noi che non lo avevamo più come “motore immobile” della vita e del vino. Ormai tutti lo sanno ma è bene ribadirlo: Giulio Gambelli ha dato un contributo fondamentale alla crescita del vino toscano negli ultimi 60 anni!
Un motore immobile che, enologicamente parlando, riusciva e rendere semplici le cose difficili, a superare con pochi passaggi, tanta maestria e un’alzata di spalle anche annate difficili o complesse, situazioni ingarbugliate, vini incerti.
Si era sempre sentito nel suo intimo, forse per via della mancanza di una laurea, un vaso di coccio tra vasi di ferro, e proprio per questo amava i vini “più deboli” i vini base, quelli che lui con una maestria sovrana, riusciva e rendere leggiadri, profumati, equilibrati.
Era un vero maestro di quello che oggi viene chiamato blend e da quattro-cinque campioni-bruco di vasche diverse, ognuno con un problemino, riusciva a tirar fuori una meravigliosa farfalla.
Per questo lo chiamai la Farfalla del Sangiovese e anche per questo oggi lo piango e lo rimpiango.