Sarà la morfologia della città, arroccata su un colle, o forse sarà che Orvieto, piccola cittadina, fino a non molti anni fa riusciva incredibilmente ad ospitare “nel suo ventre” migliaia di militari.
Sicuramente sarà anche e soprattutto il fatto che questo luogo bellissimo tra Umbria e Lazio, con una DOC di quasi 2000 ettari e più di 11 milioni di bottiglie, debba vedere tra il 60% e il 70% del suo vino imbottigliato fuori zona e spesso venduto a prezzi da realizzo.
Saranno questi motivi e forse altri a farmi considerare Orvieto come la punta di un iceberg di cui difficilmente si immagina la grandezza.
Anche gli assaggi di quest’anno hanno evidenziato che questa punta non ha niente da invidiare a tante denominazioni più blasonate. Peccato, appunto, che si parli di punta e che l’iceberg sommerso, questo “ventre molle”, rimanga tale.
Quasi 2000 ettari vitati, suddivisi in un’area le cui caratteristiche variano notevolmente andando da nord a sud e da est a ovest.
In soldoni il territorio si suddivide in quattro zone, una con maggior presenza di argilla, una seconda con terreni sabbiosi, poi quella con ripoti alluvionali (lungo il corso del Paglia e del Tevere) e infine la parte vulcanica. Questa suddivisione, in cui si trovano sia parti collinari che pianeggianti, ha un senso reale se vista attraverso “il filtro” dei vitigni della DOC, in particolare procanico (trebbiano) e grechetto.
Il disciplinare prevede un minimo del 60% per i due assieme (senza considerare gli storici drupeggio, verdello e tutti i vitigni autorizzati) ma se andassimo a guardare la composizione dei vini vedremmo che nella parte vulcanica la componente di grechetto aumenta non poco, mentre, per esempio, in quella argillosa il procanico la fa quasi da padrone. Dico quasi perché chi sta ripiantando vecchi vigneti punta più decisamente sul grechetto e meno sul procanico.
Tutto questo pippone iniziale per dirvi che, pur con un disciplinare così “aperto”, dove uve e percentuali variano in maniera notevole, questa DOC riesce comunque a mantenere un linea abbastanza precisa, un comune modo di esprimersi, almeno nella punta dell’iceberg.
Lo abbiamo constatato degustando Orvieto 2021 e 2020 e successivamente passando agli IGT sia a base grechetto che di altre uve non autoctone. Gli Orvieto Doc hanno mostrato, oltre che una qualità media di buon livello, un “comune sentire”, un modo abbastanza simile di presentarsi sia al naso (più fiori e spezie che frutta) che in bocca (sapidi, nervosi).
Al contrario tra gli IGT, anche se vi si trovano vere e proprie chicche enologiche, la stragrande maggioranza si perde in un mare piuttosto incerto e variegato di profumi, sensazioni, legni e strutture che ti fanno perdere il filo del discorso sul territorio.
Come vedrete nei nostri assaggi abbiamo premiato sia DOC che IGT, anche perchè Civitella d’Agliano è una IGT, ma lasciando da parte quest’ultima gli Orvieto DOC sono vini che rappresentano un sunto territoriale apprezzabile che ogni anno vede aumentare la qualità media.
Non per niente i cambiamenti climatici stanno avvantaggiando zone pianeggianti, dove fino a qualche anno fa la maturazione (viste anche le rese non certo basse) era sempre difficile e, all’opposto, rendono la viticoltura di collina molto più complicata ma non per questo meno qualitativa, anzi. Quelle che ci rimettono, in collina, sono le rese che in diversi casi non superano i 60/70 q.li ad ettaro.
In definitiva, pur con alcuni punti interrogativi (tipo quello sull’abbassamento della resa per l’Orvieto senza abbassare quella dell’esubero di uve) la DOC Orvieto nel 2021 propone vini di buon valore, proposti anche a prezzi molto interessanti.
Tutto questo, naturalmente, sulla punta dell’iceberg.
Abbiamo degustato vini delle seguenti aziende.
Argillae, Bigi, Cantina Altarocca, Cantina Monrubio, Cantine Neri, Cardeto, Castello di Corbara, Custodi, Decugnano dei Barbi, La Carraia, Le Velette, Palazzone, Paolo e Noemia d’Amico, Sergio Mottura, Vitalonga.
Troverete tutte le degustazioni all’interno del CLUB WINESURF.