Buono, pulito, giusto e….libero4 min read

Il tema è affascinante e apparentemente utopistico: la gastronomia, il cibo, come strumento di liberazione dalle disuguaglianze, dalle oppressioni e dagli scempi che si perpetrano sull’ambiente e sulle persone.

 

E’ questa la scommessa che lancia Carlin Petrini nel suo ultimo libro, “Cibo e Libertà” presentato pochi giorni fa a Firenze nell’ambito della manifestazione pensata da Sergio Staino dal titolo “In fondo a Sinistra”. Un libro che segue a otto anni di distanza il celebre “Buono, Pulito e Giusto”, la summa della filosofia di Slow Food.

 

E’ risultato subito chiaro come non si abbia a che fare con un libro sul cibo, ma con un libro politico che affronta temi cari alla sinistra.

 

Petrini è chiaro nel suo intervento: con Terra Madre la gastronomia diventa una scienza olistica, complessa e multidisciplinare: è antropologia, è storia, è biologia ed è soprattutto economia politica (come già aveva capito il padre dei gastronomi Brillat Savarin). Si pensi che ancora oggi si combattono guerre per conquistare la terra, come nel caso della Cina e degli Emirati Arabi che negli ultimi cinque anni si sono appropriati di 80.000 ettari di terra in Africa. Ed è da qui ovviamente che nasce la disperazione e l’emigrazione.

 

Cibo e libertà, dove la libertà non è solo avere la disponibilità della terra ma anche il diritto di stabilire il prezzo di vendita dei propri prodotti. Ma oggi il prezzo lo fa la grande distribuzione e così gli agricoltori sono alla bancarotta, a rischio di estinzione. Si pensi ad esempio che le carote vengono pagate 7 centesimi al chilo e il latte 32 centesimi al litro. E qui ritorna alla mente Pier Paolo Pasolini: “il giorno che non avremo più artigiani e contadini, non avremo più storia”.

 

Basta quindi con l’approccio schizofrenico della televisione che ci bombarda di programmi sul cibo senza parlare dei produttori e che fa “pornografia televisiva”, in un paese come l’Italia dove si spende più per dimagrire che per mangiare.

 

Allora l’approccio dovrà essere ribaltato, e qui non manca anche un po’ di onesta autocritica da parte del fondatore di Slow Food quando nel libro ricorda il primo periodo dell’associazione, quando ancora si chiamava Arcigola, un’autocritica che sa più di presa di coscienza: “Com’era riduttivo limitarci all’atto della degustazione, come sensibili animali educati, senza coniugarlo con il sapere più completo e complesso dei territori. La crapula non soddisfaceva più e cambiava il significato di bon vivant. Non bastava soltanto “camminare nei ristoranti” come faceva la maggior parte di coloro che si dichiaravano gastronomi. Bisognava rompere la gabbia, far conoscere a tutti il tesoro che avevamo fra le mani, su cui eravamo seduti, che sopiva a pochi chilometri dalla casa di ognuno di noi, spesso nei confini delle nostre città e borghi”.

 

Del resto la storia della gastronomia non l’hanno fatta i grandi chef, che alla fine sono quattro gatti, ma i milioni di donne che in ogni angolo del mondo con quel poco che avevano, ma con tanta saggezza, hanno fatto i più grandi piatti della storia dell’umanità.

        

Interessante poi è il passaggio dedicato al ruolo fondamentale dello scambio per definire la nostra – e non solo nostra – identità gastronomica. E qui gli esempi non mancano: la pasta al pomodoro contraddistingue l’Italia? Né la pasta né il pomodoro nascono in Italia. La bagnacauda nasce in Piemonte? mai viste acciughe nel Tanaro. E il baccalà alla vicentina? Arriva dalla Norvegia. E la polenta, simbolo delle valli bergamasche? Peccato che il mais nasca in America.

 

Conclude ricordando i pilastri di terra madre: l’intelligenza affettiva e l’austera anarchia. Ovvero non siamo noi a dire agli agricoltori dell’Africa e dell’America Latina cosa fare e cosa piantare. Devono operare secondo le loro conoscenze. L’agricoltura è sempre stata caratterizzata dall’economia della sussistenza, la stessa FAO ha dovuto ricredersi e abbandonare l’agricoltura intensiva per quella familiare. E’ l’economia locale quella che dà la possibilità di rigenerare una comunità.

 

Ed ecco la proposta finale: incidere sull’economia e sulla politica, quindi sulla gastronomia, rivendicando l’economia della sussistenza a livello locale, riaprire le botteghe e fare rete attraverso organizzazioni come i farmer market che già oggi stanno rigenerando la distribuzione in America.

 

I have a dream?

 

                                                                                               

Fabrizio Calastri

Nomen omen: mi occupo di vino per rispetto delle tradizioni di famiglia. La calastra è infatti la trave di sostegno per la fila delle botti o anche il tavolone che si mette sopra la vinaccia nel torchio o nella pressa e su cui preme la vite. E per mantener fede al nome che si sono guadagnato i miei antenati, nei miei oltre sessant’anni di vita più di quaranta (salvo qualche intervallo per far respirare il fegato) li ho passati prestando particolare attenzione al mondo del vino e dell’enogastronomia, anche se dal punto di vista professionale mi occupo di tutt’altro. Dopo qualche sodalizio enoico post-adolescenziale, nel 1988 ho dato vita alla Condotta Arcigola Slow Food di Volterra della quale sono stato il fiduciario per circa vent’anni. L’approdo a winesurf è stato assolutamente indolore.


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