Beaujolais, un invito al viaggio21 min read

No man is an island,
Entire of itself,
Every man is a piece of the continent,
A part of the main.
If a clod be washed away by the sea,
Europe is the less.
As well as if a promontory were.
As well as if a manor of thy friend’s
Or of thine own were:
Any man’s death diminishes me,
Because I am involved in mankind,
And therefore never send to know
for whom the bell tolls;
It tolls for thee.

 

No man is an island, John Donne

[Genova, 14 agosto 2018, ore 11:50]

Se in uno slancio idealistico facciamo dialogare il vino con il resto della vita di ciascuno di noi, allora la nostra prospettiva cambia e il significato del vino pure. Se collochiamo il liquido odoroso (Sangiorgi) in un contesto personale, emozionale, passionale, allora il suo valore assume un’importanza che travalica il semplice atto del bere, imponendoci una conoscenza il più possibile solida, onesta, seria. Serietà e consapevolezza non escludono il sorriso, la gioia, l’immaginazione, la creatività, la curiosità e un’apertura continua agli stimoli esterni: che si tratti di produrre, di valutare o semplicemente di berlo, un calice di vino. E purtuttavìa la serietà ci tiene sul pezzo, non ci fa perdere di vista la logica, ci allontana dai pruriti delle mode e dalle moine di certi imbonitori da strapazzo.

Da quando faccio il degustatore non credo sia passato neanche un breve periodo senza che qualche tormentone prendesse piede. L’ultimo che si fa strada da tempo è l’elogio indiscriminato alla verticalità dei rossi. E allora giù consigli non richiesti per acquisti discutibili e sfilze di vini (crudi) da non farsi scappare, pena la retrocessione tra i provinciali del pregiudizio di gusto.

 Se poi consideriamo gli argomenti snocciolati a sostegno di queste rivelazioni sulla presunta superiorità del rosso magro, accanto all’involontaria comicità di certe tesi e a una generale incosistenza della prospettiva critica, si affaccia puntuale lo slogan del <<si beve facile>>, come se tutto il vino debba risolversi lì, in una scorrevolezza elusiva e acidula.

 Ecco, questa scorciatoia non mi piace. Per vivere la nostra passione in modo gratificante bisogna provare ad articolare riflessioni più lucide, che tengano conto dei contesti, delle consuetudini, delle vocazioni, del tempo. Solo una generazione di produttori e di assaggiatori realmente consapevole potrà garantire le condizioni preliminari per un futuro florido, stabile e credibile del vino di qualità nel mondo.

Perché ciò accada occorre seriamente educarsi al vino, per richiamare un’espressione cara a Sandro Sangiorgi, che l’ha perfino utilizzata come sottotitolo del suo capolavoro (L’invenzione della gioia, Porthos edizioni, 2011), dedicando all’esigenza prioritaria di coltivare la propria indipendenza di giudizio pagine tra le più convincenti.

 Educarsi al vino significa anzitutto studiare e imparare a valutare caso per caso, accettare le differenze, vivere la bellezza nelle sue forme più diverse, scongiurare la minaccia dell’appattimento. Che tu sia un produttore, un sommelier, un assaggiatore, un critico, un appassionato bevitore: quella è la strada.

 L’Amarone Classico Riserva 1990 di Bepi Quintarelli e il Santa Maddalena Classico 1968 di Brigl erano due vini agli antipodi (uno monumentale, l’altro fragilissimo), eppure entrambi hanno arricchito la mia vita di assaggiatore.  Il Porto Tawny di Fonseca Guimaraens e il Barbaresco Riserva Rabajà 2006 di Giuseppe Cortese non sembrano nemmeno appartenere allo stesso pianeta, ma la loro capacità di farci vedere il sole e le stelle (da prospettive diverse) è uno spettacolo astroenologico che vale la pena non perdersi. Il Cirò Classico A Vita di Francesco De Franco e il Pergola Skiants di Villa Ligi non hanno nulla in comune ad eccezione dell’annata (la splendida 2016): il primo è un pugno nello stomaco, il secondo una carezza sul viso, ma io li ho amati entrambi senza riserve.

Dove ci porta invece la deriva crudista che tanti vini rossi vanno prendendo negli ultimi tempi? In un labirinto asfissiante, io credo. Perché un conto è l’orientamento ad apprezzare un liquido spoglio e disadorno per natura, ben altra cosa è invece la strategia produttiva che intende portare ogni vino rosso in direzione dell’acidità e della magrezza.

È stato prezioso aver ridato dignità autoriale e commerciale a varietà fragili e a lungo dimenticate come la schiava, il rossese, il grignolino, il frappato, il poulsard e via dicendo; assai meno pretendere che un Montepulciano D’Abruzzo debba porsi nervoso e leggero come un Irancy;  oppure che un Sangiovese romagnolo possa assomigliare al più ossuto dei Chianti Classico di Radda.

Anticipare eccessivamente le raccolte e vinificare in perenne <<sottrazione>> non è la strada per la felicità, ma il vicolo cieco dell’omologazione. Se bastasse uno schema, un copiaincolla, una costruzione artificiosa per un approdo davvero credibile allora un Franciacorta garantirebbe le stesse emozioni di uno Champagne; Bolgheri le medesime performance del Medoc; Termeno le identiche premesse di Colmar. Invece non è affatto così.

 L’ho presa un po’ alla larga (spero tuttavia senza andare troppo fuori strada) per anticiparvi il mio nuovo pezzo, stavolta dedicato al Beaujolais, dove i vini, soprattutto quelli molto buoni, sono autenticamente golosi (gouleyant), reattivi e vitali (senza forzature). E dove la bevibilità è sinonimo di succosità e di trasparenze, non di crudezze.

Nel Beaujolais ci sono stato quattro volte nella mia carriera, con l’idea di imparare qualcosa e di scriverci dei pensieri. Evidentemente me la sono presa comoda, visto che non ne avevo mai scritto prima d’ora. Solo adesso quel ridente pezzo di mondo insediato tra il bordo nordorientale del Massiccio Centrale e la pianura della Saona si va trasformando in un terrapieno di sensazioni a cui dare un ordine; solo negli ultimi tempi vado prendendo più confidenza con quel nome che ben si presta ai giochi di parole (beau-joli, ad esempio) e che sempre di più incanta viaggiatori  e bevitori esigenti.

 E benché la mia conoscenza di quei luoghi così pieni di vita e di quei vini così gioviali sia ancora oggi superficiale, il mio sguardo su di essi è già da tempo una emoticon con gli occhi a cuore e il sorriso spalancato. Quanto basta – spero – per giustificare un articolo e soprattutto per tornare nel Beaujolais il prima possibile.

Il nome Beaujolais deriva dall’antica baronia medievale creata dai signori di Beaujeu, un piccolo paese oggi alquanto in decadenza appartato in una delle tante valli della regione. Non tutto il territorio è consacrato al vino, ma solo la sua porzione più orientale, la Côte Beaujolaise, un pendio pedemontano che dai Monti del Beaujolais degrada verso est, in direzione del fiume Saona, laddove si incontrano due dipartimenti (Rhone e Saône-et-Loire) e due regioni amministrative (Rhone Alpes, oggi Auvergne-Rhône-Alpes, e Bourgogne, oggi BourgogneFranche-Comté). I suoi terreni migliori, cristallini, granitici e porfirici, ricchi di sostanze minerali, e la sua felice esposizione (perlopiù orientale), rendono questa zona di Francia luogo ideale per coltura della vite da almeno duemila anni, ovvero dai Romani in poi.

Il Beaujolais viticolo è terra di forti contrasti che riassume il bene e il male della recente storia enologica francese. Le sue tante facce hanno origini reciproche e radici le une nelle altre; sono interdipendenti, come il giorno e la notte.

Regione chiusa nella più profonda arretratezza e contemporaneamente aperta al dinamismo delle avanguardie più agguerrite. Patria di rossi straordinari (Fleurie, Moulin-à-Vent, Morgon e così via) e di vinelli prodotti senza alcuna distinzione (i Beaujolais Nouveau). Antico bacino viticolo – che ancora oggi conta un quantità di vecchie vigne di gran lunga superiore alla media nazionale – spesso sfregiato da approssimazione, incuria e abbandono. Territorio di grande fascino paesaggistico per troppo tempo penalizzato da una visione agronomica ed enologica di tipo industriale. Zona di numeri imponenti (più di un milione d’ettolitri prodotti ogni anno) e di grandi imbottigliatori che agli inizi degli anni ottanta del secolo scorso fu teatro di un’insurrezione ecologica da parte di un nucleo di vignaioli  locali da cui prese le mosse il movimento del vino naturale in Francia.

 

Negli anni subito dopo la seconda guerra mondiale, quando il Beaujolais si vendeva solo nella vicinissima Lione e a Parigi, ed era consumato sfuso al bancone dei bistrot più popolari, la caraffa da mezzo litro costava meno di un pacchetto di sigarette. Oggi le cose sono molto cambiate, eppure per parecchi bevitori disattenti è ancora quella la sua destinazione. Un peccato, visto che dopo un lungo periodo di crisi e migliaia di ettari di vigna cancellati, tanti Beaujolais contemporanei meritano ben altra attenzione. E un cospicuo numero di produttori tutto il nostro incoraggiamento. In più, è una regione meravigliosa per il turista in cerca di terroir d’eccezione.  

Infatti la mia prima urgenza è invitarvi al viaggio. Il Beaujolais è posto da batticuore, più sudista di quanto la sua latitudine non dica, con il calore di una vera comunità meridionale. La Côte è tuttavia mite, poco popolata e conta numerosi castelli (che offrono saggi dell’architettura civile francese di tutti i tempi) e altrettanti borghi di struggente bellezza.

La seconda è ribaltare drasticamente i luoghi comuni: i Beaujolais possono sfoggiare lo spessore dei rossi più grandi. Talento racchiuso, ad esempio, nella resistenza di quel vecchio Moulin-à-Vent 1962 dello Château des Jacques bevuto un po’ di anni fa a L’Atelier du Cuisinier. Un colpo di fulmine che ancora oggi mi perseguita. 

La terza è un suggerimento romantico: stappate una bottiglia del delizioso Saint-Amour 2014 di Jean Paul Brun ammirando il tramonto sul Mont Saint-Rigaud. Sono certo che tutto vi sembrerà più indimenticabile, soprattutto se sarete in dolce compagnia.

La quarta, e mi fermo, è raccomandarvi la bella piazza di Fleurie, un paesino di mille anime raccolte in un nome floreale, dove si producono vini floreali e dove i fiori sono ovunque, come in un eterno giardino sbocciato. Ci troverete sempre gente fino a tardi che beve, ride e fa chiasso. Tutti si frequentano e se non si frequentano provano a farlo, riuscendovi spesso.

Il Beaujolais viticolo si riconosce facilmente: è una zona molto vitata, prolifica di vini e di vignaioli, con tanti vecchi alberelli che nemmeno in Salento è più così. I rilievi sono sinuosi, intimi, con pendenze perfino estreme, ma sempre camuffate. Alle colline, ben conservate, si alternano valli percorse da ruscelli pacifici, e nelle giornate pulite si incrociano addirittura le Alpi, in direzione sud.

Il Beaujolais ha qualcosa della Toscana, ma è meno lussuoso; ricorda un po’ il Monferrato, ma è più solare e accogliente; rammenta alcuni angoli di Puglia, ma è più verde. Allo stesso tempo ha un profilo nordico, ma di un Nord che non incute timore. Non c’è niente di glaciale nei suoi venti, niente di grigio nei suoi cieli, niente di drammatico nelle sue piogge, niente di ciò che invece si percepisce appena cento chilometri più su, in Côte d’Or, oppure nella malinconica e ormai atlantica Champagne.

Pressoché a ogni curva c’è un panorama di vigne, pendii e piccoli canyon nel bel mezzo dei quali giacciono villaggi scolpiti attraverso rocce di mille colori. Retaggi geologici di una regione che dalla geologia è stata rivoltata come un calzino in cui si accumula un frenetico crogiolo di suoli. In termini di complessità geopedologica il Beaujolais è secondo solo all’Alsazia, nel panorama francese. Questo succedersi di terreni peculiari, di colori accesi (rosa e blu, bianchi e neri) e di luoghi incantevoli non manca di stupire, di dare il capogiro. E il capogiro lo dà anche il vino. Perché qui non si degusta, si beve. Non si sputa, si manda giù. E ci si accorge di essere sbronzi solo a fine giornata, quando è ormai troppo tardi per un briciolo di lucidità.

Il Beaujolais è un posto pieno di sentimenti, una vera miniera di racconti folcloristici che celebrano la gioia di vivere, così come la dura fatica delle sue genti. C’è un legame stretto e fortissimo tra il vignaiolo, la terra, la vite e il rosso che egli ne trae. E c’è una forma di gratitudine verso il divino per una celebrità forse inaspettata e forse nemmeno mai cercata.

Ci sta che se non disporrete di una mappa fortemente dettagliata del Beaujolais, probabilmente vi smarrirete. In ogni caso troverete certamente persone cortesi che vi indicheranno la direzione giusta. L’abitante del Beaujolais è molto spesso cordiale, meridionale nei modi e carioca nello spirito. Da queste parti vi dimenticherete del severo savoir-faire che investe la Champagne, dell’alta borghesia parecchio snob di Bordeaux, del mite rigore del Rodano settentrionale e della terragna ricchezza della Borgogna, dove ormai una piccola parcella di vigneto o una collezione di vecchie bottiglie è un tesoro prezioso quanto una tela di Picasso.

Il miracolo del miglior rosso del Beaujolais (il bianco quasi non esiste) è il fatto che possiede colore, buona dotazione tannica e alcolicità affatto timida, rimanendo trasognato, scanzonato, disimpegnato e versatile negli abbinamenti. Divertente in gioventù, quando esprime frutti, spezie e fiori a profusione; buono in età adulta, quando dopo qualche anno di affinamento in bottiglia lascia respirare la colorata mineralità dei suoi luoghi; granitico – come spesso sono i suoli che lo nutrono – nella piena maturità, laddove si aggrappa a una struttura gustativa di insospettabile stazza.

I Beaujolais che sanno di Beaujolais, nel senso che non tradiscono il genius loci, rappresentano l’archetipo del piacere gastronomico, mettendo insieme la carne dei vini del Rodano settentrionale (terra della syrah, con cui confina a sud) e alcuni riflessi agrumato-floreali che rimandano alla Borgogna del pinot noir, con cui confina a nord.

Un calice del miglior Beaujolais coccola senza annoiare, si fa sentire senza ferire, è facile da bere senza risultare scorrevole, è mediano senza passare inosservato, è gregario ma di quelli tosti, per cui vale la pena sacrificare un finto campione.

Fino al 1951 il Beaujolais novello non aveva ancora nomi precisi: lo si chiamava a volte primeur, a volte nouveau. Era un vino modesto, giovanile e dal frutto pronunciato, che non veniva imbottigliato e non usciva mai dalla Francia.  Fu in quegli anni che, per un fisiologico riflusso di snobismo, si diffuse l’abitudine di bere vino “nuovo”, divenendo una moda. Negozianti accorti ne misero così sul mercato in quantità sempre più cospicua, e questa volta in bottiglia: dal fenomeno furono attratti anche i ristoratori all’estero, dove negli anni d’oro veniva esportato con così tanta facilità da rendere il Beaujolais famoso nel mondo intero quanto la Champagne, e tra i bevitori meno colti, più di Bordeaux e della Borgogna.

Da allora e grossomodo fino alla fine del 1900, il Beaujolais Nouveau è stato à la page. Una sbornia di popolarità che se da un lato ha mitizzato la regione, dall’altra le ha vietato di imporsi anche per i suoi vini più veri. Più intimi. Più autentici. Perché il Beaujolais Nouveau, come ho già scritto all’inizio del mio ragionamento, non è che un pallida copia del buon Beaujolais. Si produce con la macerazione carbonica integrale e con uve provenienti soprattutto dal settore meridionale della regione, basso in quota e argilloso, condizioni nelle quali il Gamay non soffre abbastanza, si lascia andare nelle rese e risulta privo di complessità.

Per chi ancora lo ignorasse, il Gamay (per estensione: Gamay noir à jus blanc) è il punto di partenza di ogni goccia di vino prodotto in regione. Geneticamente frutto di un incrocio tra l’antico Gouais Blanc e il Pinot Noir, produce ovunque rossi privi di vera distinzione ad eccezione del Beaujolais, dove invece si riscatta con gli interessi. 

Vitigno a maturazione precoce (si raccoglie tra la fine di agosto e la prima decade di settembre), un tempo molto diffuso anche in Borgogna e a sud della Champagne, oggi è presente nella Vallée de la Loire (in particolare nelle Côte Roannaise, du Forez e d’Auvergne) e appunto qui, dove rappresenta una vera e propria monocultura, con 22.000 ettari vitati (sui 36.000 complessivamente coltivati in Francia).

Anche grazie alla presenza di due biotipi geneticamente superiori (Petit Gamay Rond e Gamay Geoffray), il vitigno come detto parla nel Beaujolais ben più che altrove la lingua della qualità. Una qualità che può diventare addirittura eccellente, conservando tuttavia i modi del vino “quotidiano” e un costo di sicuro realizzo per chi compra. Quotidianità che mette in cortocircuito pancia e cervello, favorendo la golosità senza penalizzare la qualità dei contenuti. E di contenuti ce ne sono parecchi, complice le tante declinazioni che il Gamay esprime nei vari settori della Côte Beaujolaise, lunga cinquantacinque chilometri e larga una dozzina, coinvolgendo un centinaio di piccoli paesi pittoreschi e ben curati.

Una prima divisione da fare è tra nord e sud, scegliendo la cittadina di Villefranche sur Saone come ideale spartiacque. Il distretto settentrionale (Haut-Beaujolais) si sviluppa a quote sensibilmente elevate (250-500 metri slm) ed è percorso da terroir di storica reputazione, nonché da un numero sempre più consistente di ottimi domaine. Quest’area sconfina nel Maconnais, e così per un momento, mentre si percorre il paese borgognone di Pouilly Fuissé e il vicino borgo di Saint-Amour (che dà vita alla più nordica delle appellation beaujolaise), Beaujolais e Borgogna sembrano fondersi in una sola regione.

Dovesse capitarvi di andare (anzi, andateci!) e non sapete dove vi trovate esattamente, allora guardate le viti: lo Chardonnay del Maconnais è allevato a Guyot semplice, mentre il Gamay è tenuto basso, fitto (le densità si attestano tra 8000 e 10000 ceppi ettaro) e potato ad alberello (gobelet), con il tronco che non supera l’altezza del polpaccio.

Il versante meridionale (Bas-Beaujolais), quello della celebre pierre-dorée (pietra dorata che aggiunge lustro ad alcuni dei più bei villaggi francesi), raccoglie invece un numero smisurato di rossi perlopiù semplici e dissetanti, ottenuti ad altitudini modeste (inferiori ai 250 metri slm) su suoli in prevalenza argillo-calcarei, sui quali il Gamay perde una quota decisiva di mordente, di sapore e di complessità.

I terreni settentrionali, essenzialmente granitici, sabbiosi e scistosi, a forte reazione acida, costringono il Gamay a contenere la sua generosità, trasformandolo in un rosso di buona concentrazione, di bel grip sapido e di raffinato fraseggio odoroso, giustificando l’esistenza di una denominazione d’origine di maggiore ambizione qualitativa (Beaujolais-Village) che si estende su una quarantina di comuni.

Oltretutto alcuni di quei paesi, il più delle volte graziosi e straordinariamente vitati, possono addirittura rivendicare una propria appellation communale, dando origine ai dieci storici Cru della regione (per un totale di 6200 ettari vitati: ne scrivo nel repertorio in chiusura di articolo).

La zona è grandigena e soggetta alle gelate primaverili (che il precoce Gamay patisce parecchio), ma un felice incrocio climatico (con variazioni di tipo continentale, oceanico e mediterraneo) propizia temperature miti (la media annuale si aggira intorno a 11.5 gradi centigradi), preziose luminosità (1900 ore di insolazione annua, 290 nel solo mese di luglio) e dati pluviometrici in linea con le grandi denominazioni europee (la media si attesta intorno a 470 millimetri di pioggia durante il periodo vegetativo, da aprile a ottobre).

Al contrario del Rodano meridionale, della Loira e di buona parte della Borgogna, la vendemmia meccanica non è praticata. Le ragioni sono molteplici. 1) Orografiche: le importanti pendenze di alcuni terroir male si adattano alle esigenze della macchina vendemmiatrice. 2) Agronomiche: per la cospicua presenza dell’alberello, inadatto alla meccanizzazione. 3) Enologiche: le vendemmiatrici non sono in grado di raccogliere il grappolo intero, indispensabile per la vinificazione di quasi tutti i Beaujolais in commercio.

A tal proposito, è bene sapere che la tradizione locale suggerisce una parziale fermentazione carbonica (provocata dalla pressione naturale delle uve non diraspate), macerazioni piuttosto brevi (una settimana circa) a tino aperto e maturazioni in fusti maturi (demi-muid o barrique). Solo raramente si incontrano produttori che elaborano protocolli di tipo borgognone, ed è una fortuna, perché le lunghe macerazioni incupiscono l’espressione del Gamay, lasciandogli in dote una tannicità non di particolare grazia.

Il periodo di élevage non è mai più lungo di sette, otto mesi: in questo modo si preservano le fragranze varietali lasciando però aperta la porta all’evoluzione, giocando su un chiaroscuro che a ben vedere è il primo segreto del miglior Beaujolais possibile: frutto e complessità, golosità e profondità, piacere nel presente e complessità nel futuro. Gli altri sarà bello scoprirli da soli, io credo. Meglio ancora se direttamente sul posto.

Buon viaggio.

 

I 10 Cru del Beaujolais da archiviare.

Vitigno: 100% Gamay noir à jus blanc.

Densità minima degli impianti: 6000 ceppi per ettaro (8000/10.000 per consuetudine).

Sistema di allevamento più diffuso: Gobelet (alberello a palo singolo).

Età media delle viti: 45 anni (con tante parcelle ben più venerande).

Resa in vino massima: 58 ettolitri/ettaro (per consuetudine 50 ettolitri).

Vendemmia: Prima decade di settembre.

Titolo alcolometrico medio: 13 gradi.

Jean Paul Brun

AOC Saint Amour: (Bourgogne, Dip.Saône et Loire). 325 ettari nel comune eponimo. Terreni originati da disfacimento granitico, con presenza di argille silicee, ricche di elementi grossolani, rocciosi. Se ne ottengono vini delicati e di belle potenzialità floreali. Produttori: Jean-Paul Brun (Domaine des Terres Dorée); Alexandra de Vazeilles (Château des Bachelards); Jean-François Trichard (Domaine des Pierres).

domaine Paul Eric Janin

AOC Juliénas: (Bourgogne e Rhone Alpes; Dip. Saône et Loire e Rhone). 580 ettari distribuiti in quattro comuni: Juliénas, Jullié, Èmeringes, Pruzilly. Terreni perlopiù granitici e magri, particolarmente poveri lungo i pendii e invece più generosi verso il fondovalle di Juliénas. I vini della denominazione sono tesi e austeri in gioventù, di buona longevità.  Produttore: Bernard Santé.

Domaine des Pierres

AOC Chénas: (Bourgogne e Rhone Alpes; Dip. Saône et Loire e Rhone). 265 ettari coltivati in due comuni: Chénas e La-Chapelle-de-Guinchay. Denominazione poco nota per le dimensione ridotte (è la più piccola appellation beaujolaise) e per la sovrapposizione con l’Aoc Moulin-à-Vent, più celebre e dunque più rivendicata in etichetta. Terreni sabbiosi di natura granitica (ricchi di manganese) da cui si ottengono rossi complessi e completi, floreali e speziati. Produttori: Bernard Santé; Jean-François Trichard (Domaine des Pierres); Julien Revillon (Domaine Dominique Piron); Paul-Henri Thillardon.

Georges Descombes

AOC Moulin-à-Vent: (Rhone Alpes; Dip. Rhone). 655 ettari vitati in due villaggi: Chénas e Romaneche-Thorins. È il Cru più celebre del Beaujolais insieme a Morgon: qui le sabbie granitiche, ricche di manganese, sono drenanti, aride, sempre più povere mano mano che le quote altimetriche si alzano. Si producono rossi piuttosto lenti nell’evoluzione, di tipo “borgognone”, pieni e robusti quanto agili e ben capaci di sentire il tempo. Produttori: Éric Janin (Paul Janin et Fils); Bernard Santé; Jean-François Trichard (Domaine des Pierres); Jean-Paul Brun (Domaine des Terres Dorée); Paul-Henri Thillardon.

Mathieu Melinand

AOC Fleurie: (Rhone Alpes; Dip. Rhone). 870 ettari esclusivamente piantati nel comune eponimo, su terre granitiche. La roccia è affiorante nelle posizioni più alte e invece coperta da materiale alluvionale e argilloso nelle zone più basse. L’ampio delta altimetrico (430-230 metri sul livello del mare) e le dimensioni del territorio ci impediscono di generalizzare, tuttavia i vini migliori, spesso irresistibili a tavola, arrivano dai lieu-dit Les Quatre-Vents, La Chapelle-des-Bois, Grille-Midi, Les Roches e La Rochette, con un profilo molto floreale, originali traiettorie empireumatiche e solida sapidità. Produttori: Georges Descombes; Pierre-Marie Chermette (Domaine du Vissoux); Cédric Chignard;  Jean-Paul Brun (Domaine des Terres Dorée); Mathieu Mélinand (Domaine des Marrans); Julien Sunier.

Jean Foillard

AOC Chiroubles: (Rhone Alpes; Dip. Rhone). 350 ettari insediati nel territorio comunale eponimo alle altitudini più severe dell’intero distretto (380/400 metri), compensate da esposizioni solatie (perfino a sud-ovest, un’eccezione da queste parti) e da terreni granitici precocizzanti, leggeri e sabbiosi. Si ottengono vini “petalosi”, talvolta aspri e talatra scolpiti nella rosa. Produttori: Daniel Bouland; Julien Revillon (Domaine Dominique Piron); Damien Coquelet; Mathieu Mélinand (Domaine des Marrans).

Chateau Thivin

AOC Morgon: (Rhone Alpes; Dip. Rhone).  1110 ettari vitati, ovvero il secondo Cru per estensione, dopo Brouilly. Terreni peculiari, più scuri della media beaujolaise, con presenza di scisti e ossidi di ferro. Un solo comune coinvolto (Villié-Morgon) e invece molteplici i lieu-dit storici, primo fra tutti la celebre e basaltica Côte du Py e con essa Courcelette, Gros-Bras, La Roche-Pilée, Javernière. I Morgon sono i Beaujolais più scuri in circolazione, minerali, originali nei profumi (distillato di ciliegia) e bisognosi di lunghi affinamenti in bottiglia. Produttori: Daniel Bouland; Georges Descombes; Claude-Emmanuelle e Louis-Benoît Desvignes (Domaine Louis-Claude Desvignes); Jean-Marc Burgaud; Nicolas Chemarin; Jean-Foillard; Mathieu Lapierre (Marcel Lapierre); Damien Coquelet; Mathieu Mélinand (Domaine des Marrans); Julien Sunier.

AOC Régnié: (Rhone Alpes; Dip. Rhone). 395 ettari coltivati nel comune che battezza l’ultima denominazione comunale del Beaujolais in ordine cronologico (1988). Si produce vino a 500 metri fino a 220 metri di quota, con tutte le variabili espressive del caso. I suoli, sabbiosi e poveri, sono originati dallo sfaldamento di graniti rosa. I vini non possiedono la personalità dei Cru più antichi, oscillando da interpretazioni leggiadre a espressioni più decise. Produttori: Nicolas Chemarin; Julien Sunier.

Nicolas Chemarin

AOC Brouilly: (Rhone Alpes; Dip. Rhone). 1330 ettari distribuiti lungo sei comuni: Saint-Lager, Cercié, Quincié, Odenas, Saint-Étienne-la-Varenne e Charentay. Di gran lunga il Cru più ampio ed eterogeneo, insiste su almeno tre matrici pedologiche prevalenti: arenarie granitiche di color rosa; argille silicee e suoli più scuri ricchi di diorite, una roccia eruttiva che è molto presente soprattutto nella denominazione successiva. I rossi qui vengono spesso mediani, vinosi e polputi, dal frutto ben definito (sovente mirtilloso) e dalla modesta propensione alla longevità. Produttore: Laurent Martray (Domaine Laurent Martray).

AOC Côte de Brouilly: (Rhone Alpes; Dip. Rhone). 310 ettari vitati esclusivamente ai piedi del Mont Brouilly. Da non confondere con la denominazione precedente (il cui vigneto è invece lontano dal monte), è uno dei terroir più straordinari del Beaujolais, con pendenze sensazionali, terreni ricchi di dioriti e quarziti e la famosa “pierre bleu de Brouilly” di natura vulcanica. I vini qui sono eleganti, profondi, minerali e ben disposti a farsi coccolare dal tempo. Produttori: Claude e Claude-Édoard Geoffray (Château Thivin); Laurent Martray (Domaine Laurent Martray); Jean-Paul Brun (Domaine des Terres Dorée); Julien Duport.

Ninakutumia caress, upendo wangu.

[ilysmvv]

 

Francesco Falcone

Nato a Gioia del Colle il 6 maggio del 1976, Francesco Falcone è un degustatore, divulgatore e scrittore. Allievo di Sandro Sangiorgi e Alessandro Masnaghetti, è firma indipendente di Winesurf dal 2016. Dopo un biennio di formazione nella ciurma di Porthos, una lunga esperienza piemontese per i tipi di Go Wine (culminata con il libro “Autoctono Si Nasce”) e due anni di stretta collaborazione con Paolo Marchi (Il GiornaleIdentità Golose), ha concentrato per un decennio il suo lavoro di cronista del vino per Enogea (2005-2015). Per otto edizioni è stato tra gli autori della Guida ai Vini d’Italia de l’Espresso (2009-2016). Nel 2017 ha scritto il libro “Centesimino, il territorio, i vini, i vignaioli” (Quinto QuartoEditore). Nell’estate del 2018 ha collaborato alla seconda edizione di Barolo MGA, l’enciclopedia delle grandi vigne del Barolo (Alessandro Masnaghetti Editore). A gennaio 2019, per i tipi di Quinto Quarto, è uscito il suo ultimo libro “Intorno al Vino, diario di un degustatore sentimentale”.  Nel 2020 sarà pubblicato il suo libro di assaggi, articolazioni e riflessioni intorno allo Champagne d’autore. Da sei anni è docente e curatore di un centinaio di laboratori di degustazione indipendenti da nord a sud dell’Italia.


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