“Al 43° parallelo e a 50 m slm Ampeleia coltiva il Cabernet Franc di montagna più a sud del Mediterraneo” ha sentenziato Adriano Zago, enologo consulente dell’azienda maremmana di Roccatederighi. A questo si aggiunge che è biodinamica e i suoi vini sono sempre non filtrati.
Marco Tait, direttore tecnico dell’azienda, ha scrutato le nostre facce lungo tutta la degustazione per capire se i due nuovi Crù aziendali (trattasi di filari e non di parcelle ma sono comunque una selezione basata su caratteristiche morfologiche del terreno per lo più argilloso), 16 file e 30 file, possono essere lanciati sul mercato con fiducia. La risposta è sì, avendo chiaro che il 100% Cabernet Franc nel calice affinato in cemento grezzo, oltre a profumi complessi spinti anche dalla fermentazione spontanea, è succoso, tannico, persistente e saporito. Dove gli aromi varietali sbocciano al palato con freschezza c’è una punta salina che il 16 File 2020 secondo noi mostra con eleganza.

Due vini che si distinguono stilisticamente dal resto della produzione aziendale: qui ai bianchi e ai rosati qualche spigolosità organolettica non soffusa viene concessa ed è figlia di scelte in cui la priorità è far emergere la tenacia della natura e dell’uomo che la coltiva. Ad Ampeleia la convivenza tra bipedi e mondo vegetale è armoniosa, e trapela da tutto il progetto, così ben identificabile che qualche amica che sapeva della mia visita all’azienda maremmana ha esordito con: “I miei vini preferiti!”.
Divertente anzi accattivante anche il progetto UNLITRO che oltre a identificare un blend di Alicante Nero, Sangiovese, Mourvèdre e Alicante Bouschet, comunica esattamente la quantità di vino che si porta a casa. Un vino immediato rispetto al Cabernet Franc piantato qui dalla precedente proprietà aziendale per abbinare il loro core business: la carne di piccione.
Un progetto POP, amichevole, dove però banalità e cialtroneria non hanno spazio, né in cantina né in tavola, ma che vuole uscire dagli schemi e lo fa senza snobismo.
L’altro biodinamico firmato Zago

Se ad Ampeleia Adriano Zago è parte di un team, a Podere Mastrilli è il padrone di casa. Altro progetto estremo dal punto di vista della biodinamica, dove l’enologo mette in pista nel suo vigneto giardino di 7.000 mq con cloni di 7 vitigni autoctoni provenienti da piante limitrofe di almeno 80 anni, i cardini della sua visione enologica.
Una visione che parla di cambiamento climatico, di pazienza, di rinuncia alla quantità in virtù dell’equilibrio tra gli esseri verdi e reattivi del suo podere dell’Impruneta.
Un mix di impianto tra guyot e alberello palizzato, dove le apparenti fallanze sono spazi dove la vite non è a suo agio e non è stata forzata, dove alberi di mandorlo (o pesco, susino, albicocco, olivo) sono stati piantati in mezzo ai filari contestualmente alle viti seguendo i criteri della filosofia dell’architettura degli alberi, per ottenere in vendemmia alcuni grappoli maturati all’ombra: le foglie del Trebbiano che cresce sotto le fronde di questi alberi sono grandi come un frisbee.
Un progetto che dimostra che ai cambiamenti climatici estremi esiste una risposta altrettanto estrema che apre una strada: il suo vino, per questa annata in rosa (ogni annata deciderà come vinificare a seconda delle condizioni finali dell’uva) è elegante, profumato, fresco, con 11,5% gradi alcolici, che anche sotto il sole non fanno tremare le ginocchia e la testa.

Sette vitigni (Sangiovese, Malvasia toscana, Canaiolo, Trebbiano toscano, Colorino, Mammolo, Ciliegiolo) che vengono raccolti tutti insieme e vinificati tutti insieme, come il Buttafuoco Storico dell’Oltrepò Pavese, ricalcando una tradizione contadina andata perduta.
Un progetto anti ‘vigne pettinate’: Elisabetta Foradori (già proprietaria con Giovanni Podini e Thomas Widmann di Ampeleia) e Enrico Rivetto, due produttori con cui Zago condivide il percorso professionale, hanno testimoniato nell’ambito della visita al vigneto giardino di Podere Mastrilli, l’efficacia della filosofia agronomica applicata qui, sottolineando come forse sia una necessità più psicologica (e meccanica sicuramente) allevare vigneti ‘ordinati’ e rigorosi, che sempre più spesso si scontrano però con la necessità di interazione e coabitazione con altre specie per risvegliare la capacità di adattamento.
Naturale sì o naturale no?
Entrambe le aziende utilizzano lieviti indigeni e Ampeleia non filtra i suoi vini, che li rende già al tatto fuori dagli schemi. Potrebbero rientrare nella definizione-non definizione di vini naturali… o forse no, visto che al caso e di naturale non c’è nulla nei loro processi produttivi, dove l’uomo è una presenza fissa e attenta. Quanti di voi con le temperature di questi giorni si fermerebbero ad annusare le viti? A ridosso del bosco e sotto un albero tra i filari si può fare e dopo il vino che avremo nel calice (qualsiasi siano i vostri gusti enologici), vi sarà più simpatico perché vi sarete sentiti accolti e protetti dalle radici e dalle piante che l’hanno creato.