Alto Adige: la regione più “Nuovo Mondo” nel “Vecchio Mondo”. Ma attenzione!4 min read

Leggendo l’interessantissimo articolo di Francesco Falcone, che condivido praticamente in pieno, mi sono venute in mente alcune idee che credo sia interessante sviluppare e che potrei riassumere così: l’Alto Adige è forse la regione più  Nuovo Mondo nel Vecchio Mondo.

Cioè  l’Alto Adige è la regione italiana che, per recente storia enoica,tipologia di vini e di vitigni si stacca di più dal modo europeo di concepire il vino  e si avvicina maggiormente a quello che viene definito Nuovo Mondo enoico.

L’Alto Adige è stato ed è conosciuto per vini irreprensibili, varietali, tecnicamente perfetti e proposti a un prezzo quasi sempre molto conveniente. Tutto questo non solo è avvenuto nell’arco di 30-35 anni circa ma si è sviluppato con una radicale inversione enoica, che ha visto da una parte l’abbandono quasi totale del vitigno “madre” ( la schiava) e la sua sostituzione con uve internazionali. Qualcuno potrebbe obiettare che esistevano e esistono  altri vitigni autoctoni come il Lagrein e soprattutto il Gewürztraminer, ma basta andare a guardare quanti ettari erano piantati  nel 1985 per capire come  l’inversione enoica sia stata una vera e propria rivoluzione. Rivoluzione fatta solo ed esclusivamente con vitigni internazionali: Chardonnay, Sauvignon, Pinot Bianco, Pinot Grigio, Cabernet Sauvignon, Merlot, Pinot Nero e magari me ne scordo qualcuno.

La stessa cosa è, mutatis mutandis, avvenuta in Cile dove l’uva autoctona Pais è  stata dimenticata e sostituita  in toto da uve internazionali, in Argentina dove la Criolla o la Torrontes oramai servono per i vini casalinghi e  impazza no malbec, merlot, chardonnay e chenin blanc. Per non parlare di Australia, Nuova Zelanda e anche tante parti degli Stati Uniti  dove la viticoltura è partita quasi da zero con uve di ogni parte del mondo, vitigni internazionali in primis. Queste nazioni sono state conosciute quindi grazie a uve internazionali e a vini sempre e comunque enologicamente perfetti, di buona qualità, assolutamente varietali e dal prezzo abbordabile. I consumatori ricercavano (e ricercano anche adesso, almeno nel 90% dei casi) la sicurezza di un aroma, di un gusto conosciuto e ripetibile, il tutto proposto a prezzo vantaggioso.

Questo succede anche con i vini altoatesini. E infatti oltre ai vitigni quello che rende l’Alto Adige  molto “Nuovo Mondo” è anche la tipologia di vini prodotti: estremamente varietali,  da bere giovani in molti casi  e soprattutto irreprensibili dal punto di vista tecnico. A questo si aggiunge un prezzo  indubbiamente concorrenziale. Di diverso rispetto ad altre regioni italiane è, almeno fino a pochi anni fa, l’assoluta mancanza di voglia  puntare sul territorio ma sul vitigno, mentre regioni concorrenti come Il Friuli e  il Trentino cercavano  strade diverse.

Credo che una delle grandi diversità del Nuovo Mondo altotesino rispetto al resto d’Italia sia stata la presenza, sin da subito, di cooperative avvedute  che ha permesso ai loro vini (un esempio su tutti: lo Chardonnay Sanct Valentin di San Michele Appiano) di presentarsi sul mercato con una massa critica  importante dello stesso prodotto. Una “sana ripetitività”, un’ampia repribilità sul mercato  che, basandosi su “rispondenza varietale/qualità/prezzo” ha permesso all’Alto Adige  di imporsi, specie  tra i bianchi.

Vigneti a Gleno

Questa politica quasi trentennale però oggi ha portato l’Alto Adige praticamente nello stesso posto di Cile, Argentina, Australia etc, cioè ad essere “preda” di un mercato dove la qualità conta solo se è supportata da un prezzo basso. Il peggio è che questo accade nel momento in cui l’Alto Adige punta a qualcosa di diverso e più alto, a dei vini che (almeno sulla carta)  non siano solo corrette espressioni varietali, ma figli riconoscibili di un territorio, nati non per vivere una breve esistenza ma per svilupparsi negli anni. Si può parlare molto di come questo cambiamento si stia attuando ma fondamentalmente la linea che si sta tracciando è questa.

Una linea che però tiene i piedi in più staffe perché non si può rinnegare o comunque sottovalutare un mercato consolidato.

La zonazione che si sta cercando di fare è, anche questa, molto Nuovo Mondo, perché non si può pensare che nella stessa zona il “terroir” sia adatto, ad esempio, per pinot grigio, sauvignon, merlot, pinot bianco e pinot nero.

Pensate se un produttore langarolo sostenesse che Cannubi è adatto per il nebbiolo, lo chardonnay, il merlot e il pinot bianco o se a Montalcino si sostenesse che a Montosoli viene bene  sia il sangiovese che il malbec. Come minimo si penserebbe ad un attacco di follia.

Eccoci al punto: per riuscire veramente a crescere, secondo me, l’Alto Adige deve da una parte rimanere fortemente ancorato ai metodi del nuovo mondo ma dall’altra, nei vini “di territorio”, deve diventare più vecchio del Vecchio Mondo, legandosi solo e soltanto  all’espressione del territorio.

Il grande vino territoriale altoatesino, quello che potrà e dovrà essere venduto a prezzo alto, dovrà così perdere molte delle caratteristiche varietali ed esprimere la zona, anche a costo di  correre il rischio di essere difficilmente “riconoscibile” e diverso anno dopo anno.

Fare un SuperAltoadige con più corpo, struttura e magari, tanto legno, porterà forse nell’immediato a dei risultati anche di mercato, ma nel lungo tempo renderà banale e scontata ogni istanza di miglioramento.

Capisco sia difficile  seguire due strade diverse ma adesso è il momento: per farlo o per non farlo

 

Foto  di copertina di Wine Folly , che ringraziamo

Foto di netivist.org, che ringraziamo

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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