A spasso nel Porto, ovvero com’è morbido il Douro12 min read

Ho avuto l’opportunità di visitare (nuovamente) la valle del Douro e partecipare, con gli auspici di Winesurf, alla neonata manifestazione Douro Primeira Prova, ovvero l’assaggio en primeur, stile Bordeaux se volete, delle nuove annate dei bianchi e dei rossi della valle e ovviamente dei Porto Vintage.

Per me la valle del Douro è un luogo dello spirito: ne agogno la bellezza, mi incanta il paesaggio, mo esaltano i prodotti. Più bevo Porto e più me ne innamoro.

E lo ricollego a quell’incredibile conformazione, alle decine di chilometri di sponde del fiume terrazzate, dalla riva alla cima dei rilievi: il lavoro immane di generazioni di uomini e donne che se ne partivano verso aree sperdute e desolate per fame certo, ma anche, forse, col segreto orgoglio di far parte di quel magico processo che dalla vigna alla cantina produce alcuni dei vini più affascinanti e longevi del mondo.

Il moderno eno-appassionato disgraziatamente non ama i vini dolci o “da meditazione”: io, invecchiando, non riesco più a farne a meno, del Porto in particolare.

Sono arrivato nella valle del Douro in treno, in un modo che riecheggia i percorsi di un tempo ormai passato, senza sfruttare la nuova autostrada. Un comodo espresso mi ha portato in poco più di tre ore da Lisbona a Porto, con simbolica visuale, dal vagone che oltrepassava il ponte sul fiume, sulle cantine di affinamento a Vila Nova de Gaia, nonché su una spiaggia fluviale dove i Portuensi vanno probabilmente a godersi la loro ancora nuova prosperità.

Poi un altro convoglio, più modesto, trainato da un tronfio e discretamente puzzolente locomotore diesel, ha attraversato prima alcuni sobborghi della città di modesta attrattiva, poi una campagna abbastanza incontaminata, per poi sbucare sul fiume e costeggiarlo ansa dopo ansa, immerso in un panorama in cui ai primi terrazzamenti facevano da contraltare moto da acqua, barche a vela, e navi da crociera fluviale: il turismo di massa è arrivato nel Douro, ma avrò modo di riparlarne.

In due ore il mio treno giallo canarino mi ha condotto a Peso de Regua (abbreviato in Regua), il villaggio che è in qualche modo la porta di accesso alla zona vitata. Regua è un luogo di rara bruttezza (a parte una passeggiata sul lungofiume recentemente allestita), ma è circondato da un paesaggio meraviglioso. L’albergo scelto sul web per comodità logistica (distanza pedonabile dal centro) e voluttuaria (c’era – o doveva esserci… – la piscina!), si è rilevato una delusione: a partire da una receptionist evidentemente incapace di contrarre il proprio cipiglio in un sorriso, probabile segno di maltrattamenti subiti in gioventù, a mio modesto parere giustificati. Peggio ancora, la piscina era ancora chiusa (i primi di giugno, nel Douro! Ovvero in luogo i cui stessi abitanti dicono che ha “9 mesi di inverno e 3 mesi di inferno”).

In una serata silenziosa mi sono avviato verso un deludente ristorante improvvidamente segnalato da una guida enogastronomica del Portogallo scritta da un giornalista inglese. Pareva che il Douro mi rifiutasse, subdolamente mi sussurrasse: “ma cosa sei venuto a fare…”. Per fortuna, il giardino del locale Museo mi ha accolto con la sua erba verde all’inglese e la vista sul fiume, e due cocktails hanno migliorato il mio umore mentre un limpido crepuscolo calava e in mezzo ai vigneti si accendevano delle trine di luci. E così è finito il mio primo giorno.

La mattina dopo era domenica e il locale ufficio di autonoleggio era chiuso (apposta avevo pensato alla piscina!). Non così per fortuna il locale Ufficio Informazioni Turistiche: al Vostro turista fai da te no Alpitour l’addetta ha suggerito di prendere il treno (è lo stesso, la linea è solo quella) fino al più piccolo e non più bello paese di Pinhão, dove avrei trovato quintas a distanza camminabile). Dopo mezz’ora di viaggio ancora più a monte del fiume, con vista su un panorama ancora più fatato, Pinhão mi accoglie con un tratto di banchina inopinatamente costellato di ristoranti, bar, noleggiatori di moto da acqua e venditori di crociere sul fiume su imbarcazioni di ogni forma e dimensione.

Scanso la calca, mi godo un buon pranzo in un ristorante defilato dal “centro” segnalato come luogo di ritrovo abituale dei lavoratori delle adegas (stavolta la guida inglese non ha toppato), e raggiungo a piedi la mia prima azienda, Quinta de la Rosa.

Trattasi di struttura molto (quasi troppo) organizzata dal punto di vista turistico, con tanto di ristorante sciccoso con vista fiume, turismo de abitaçao (una specie di agriturismo), e visite organizzate ad orari prussiani, quarto d’ora accademico a parte. Per l’appunto il primo tour guidato è stranamente in lingua portoghese (mi è stato confermato che è rarissimo!): per quel poco che mi riesce di capire la nostra guida è competente e chiara nella spiegazione, o, almeno, gli ospiti local sembrano soddisfatti. La degustazione verte molto più sui vini da tavola che non sul Porto, anche se mi viene gentilmente concesso gratis l’assaggio di un Tawny 20y proprio perché avevo dovuto “subire” la visita in portoghese. I vini sono buoni, levigati al punto giusto, gradevoli a una molteplicità di palati, anche se mi sembra pecchino un poco di profondità.

Mi incammino per il lungofiume in un’atmosfera un po’ da sagra paesana, alla “venghino siori venghino”. Potrebbe essere il lungomare di qualunque località balneare nostrana. All’estremità opposta di Pinhão mi attende la Quinta do Bonfim, ma la prima visita guidata (pare che non se ne possa fare a meno) mi costringerebbe ad attendere più di mezz’ora. Scelgo allora di verificare gli orari della Quinta das Carvalhas, sulla riva opposta, e questa decisione mi farà felice.

Quinta das Carvalhas è di proprietà di Real Compañia Velha, tecnicamente l’azienda più storica del Porto, nata come ente che supervisionasse le regole emanate dal Marchese di Pombal nel 1756, divenuta compagnia statale e, infine, privata.

Già la sala di accoglienza (e di degustazione) ha l’allure di un club inglese. Poi un dehors esterno vista fiume (lì a due passi), promette relax estivi. Poi un bus disinvoltamente guidato si arrampica su una pendenza improba fino a qualche centinaio di mt. sopra il fiume, offrendo uno scorcio sempre diverso di vigne e terrazzamenti. In cima la visuale è magnifica: si coglie il corso del fiume a monte e valle dell’ansa di Pinhão, con la valle dell’affluente Rio Torto per buona misura. Non mi azzardo a entrare in una vigna centenaria che scoscende senza che se ne veda il fondo (mi limiterò a comprare il vino che se ne deriva): non ho le scarpe adatte, e certo rotolerei fino al fiume.

Piuttosto è interessantissimo notare come sul crinale la temperatura e la ventosità possano cambiare anche a soli pochi metri di distanza: il segno del patchwork che gli enologi del Porto possono comporre con la loro sensibilità. Come ha detto Dirk Nieeport, proprietario dell’omonima azienda, l’uomo che ha iniziato la rinascita dei vini da tavola nel Douro: “può anche darsi che la vinificazione sia una scienza, ma l’assemblaggio è un arte”.

Felice della mia visita e inebriato dal panorama torno in paese, e lo trovo desertificato. I turisti della domenica se ne sono andati, le navi da crociera partite. Accaldati cani randagi, accucciati in mezzo alla strada come se nessuna auto dovesse passare mai più, mi guardano senza malizia mentre passo loro accanto. Anche la stazione è chiusa: per essere certo che il mio treno (l’ultimo) arrivi dallo sperduto avamposto della civiltà di Pocinho, che esiste solo perché lì la ferrovia finisce, per fortuna esiste un pulsante di chiamata automatica all’ufficio informazioni.

In questo nulla pressoché assoluto da estate post-nucleare, funziona! Riesco a farmi capire e mi assicurano che non sono bloccato a Pinhão. E’ rimasto un bar aperto, illuminato da una sola lampadina, e dall’onnipresente televisione: bevo una birra nell’attesa, occhieggiando un film di avventura americano fracassone che stona in quell’immobilità, che è anche silenzio, pace, contemplazione delle colline intorno, terrazzate, ça va sans dire, fino all’ultimo centimetro, cattedrali alla natura e al lavoro dell’uomo. Me le godo sull’ultimo convoglio che sbuffando mi riporta a Regua. Una cena trendy in un ristorante di qualche giustificata pretesa vicino alla stazione, e così finisce il mio secondo giorno.

La mattina successiva, lunedì, il mio status di turista fa un salto di qualità poiché noleggio un auto. Per bonus l’impiegato mi indica un limitrofo bar dove lasciare le chiavi il mattino dopo, che, mi assicura, “fa il miglior caffè di Regua”. Non mancherò di far tesoro del consiglio, che la colazione in albergo è tristanzuola quanto il resto…

In auto voglio esplorare zone che non avevo toccato nella mia precedente visita nel Douro, e così affronto la valle del Rio Torto, così pittorescamente chiamato perché… è davvero torto! Il mio tragitto è quanto mai lento, poiché mi fermo ogni 200 mt o meno per fare foto, io che non ne sono un maniaco, ma ogni curva mi offre un nuovo paesaggio degno di essere immortalato.

Quinta do Quevedo, vigneti.

Nel paesino di Ervedosa do Douro mi fermo in un ristorante scelto a caso (giusto perché avevo visto entrarci qualcuno!) per un pasto che si rivelerà tra i migliori della mia permanenza. Tra l’altro, mi concedo un Tawny 20y della Quinta do Quevedo e mi riprometto subito di visitarla. Si trova più avanti, poco oltre San Joao de Pesqueira, villaggio cui giungo dopo altri chilometri di strada di collina quanto mai scenografica, e che ospita un Museo del Porto, ben allestito ed esaustivo. In cantina una solerte impiegata, che credo si diverta ad assaggiare almeno quanto me, non mi stappa nemmeno una bottiglia ma mi fa “visitare” botti su cui campeggiano lavagnette con scritto “1970”… e simili. E’ una cornucopia, un paese dei balocchi per gli amanti dei vini dolci, con tutte le gradazioni possibili scalando dall’immediatezza di frutto alla maggiore complessità data dall’evoluzione ossidativa. Fiero della mia morigeratezza, compro solo 12 bottiglie, ma appena uscito dalla cantina un po’ mi pento…

E’ già pomeriggio inoltrato, ma il sole è ancora alto e la luce splendida. Mi ripropongo di tornare verso Pinhão con un itinerario alternativo e non mi rendo conto delle conseguenze: nel Douro per raggiungere luoghi a pochi chilometri in linea d’aria da dove ci si trova capita di dover guidare per decine di chilometri di curve e saliscendi, per fortuna quanto mai scenografici.

Ma non basta, inoltrandosi sempre più a monte del corso del fiume, le costruzioni si diradano e si è travolti dalla piacevole impressione di essere del tutto fuori dal mondo, anche se il paesaggio è completamente antropizzato per gli onnipresenti vigneti.

Mi scapicollo su stradine più strette della mia auto, alla ricerca di una diga che consente di passare dall’altra parte del fiume: ovviamente sbaglio direzione (e chi ha voglia di usare il navigatore? Il Douro è un luogo che invita a lasciarsi guidare dalla sorte) e mi ritrovo allo sbocco di un piccolo affluente sonnacchioso, dove un’imponente quinta pare abbandonata (e non lo è), vigilata, anche qua, da cani randagi amichevoli che si sdraiano in mezzo alla strada.

Un chilometro più in là, un solitario ristorante in riva al fiume giace nel silenzio in attesa della prossima nave da crociera. L’acqua è azzurrissima, pare quasi ferma, traslucida nella luce del sole che inizia a calare, e riflette il lontano, bianchissimo, ponte della ferrovia.

Tornando indietro, mi lascio convincere dall’indicazione di un miradouro (punto panoramico) in direzione della Quinta de Vargellas: “E quando mi ricapiterà di venire fin qua?”, penso (adesso lo so: il prossimo anno). La strada si inerpica, larga e abbastanza agevole, oltrepassa un paesino di poche case infiorate, e arriva a questa sorta di balconata, in un silenzio rotto solo dal vento: il fiume si snoda nel suo blu profondo, tutta la superficie che vedo, anche sulla riva opposta, è un ricamo di filari di viti e di muri a secco, terrapieni, vigne coraggiosamente piantate a rittochino, con qualche ciuffo di verde a dare una macchia di colore, come un’artista naif che aggiusta il dipinto di cui è fiero con l’ultima pennellata. Posso mostrarvi la foto, ma oggettivamente non rende l’idea: vi basti pensare che sono rimasto 40 minuti a guardare il panorama, sopraffatto.

Adesso è VERAMENTE ora di tornare: indietro sui miei passi, raggiungo la diga, maestosa in mezzo a un nulla pieno solo di vigneti. L’itinerario da me prescelto su delle cartine volutamente generiche (a mio rischio e pericolo), implica salire di qualche centinaio di metri fino ad altro villaggio che esiste evidentemente solo  per se stesso, ridiscendere al livello del fiume fino a tre case intorno a una pomposa stazione della linea ferroviaria, risalire ripidamente lungo la valle del Rio Tua, già parco naturale, costeggiando un’altra diga da cui scrosciano le acque dell’impianto idroelettrico, serpeggiare in mezzo a un altopiano frastagliato fino al grande villaggio di Adejo, poi ridiscendere a rotta di collo su Pinhão.

Il tutto per qualche decina di affascinanti Km in mezzo al nulla. In sintesi, se vi volete astrarre dalle bassezze del mondo, non c’è bisogno dell’Himalaya, basta la valle del Douro. Peraltro, il cellulare prende, SEMPRE, anche negli angoli più sperduti: così, se volete davvero la pace, non avete che da spegnerlo, è semplice.

Da Piñhao sono un’altra trentina di Km fino a Regua. Poco prima delle 10 di sera mi sono fermato a cena in riva al fiume in un pretenzioso ristorante di uno chef mediatico, una specie di Cannavacciuolo in salsa portoghese. Troppo vento per mangiare all’aperto, purtroppo. Un folto gruppo di turisti tedeschi provvedeva a tutto il sonoro della sala dopo libagioni evidentemente al di là della loro capacità di assorbimento. La maitre, corredata di un po’ di prosopopea e di quella studiata amichevolezza che serve a creare il colore locale per i turisti stranieri, andava in su e giù in infradito (sic!) chiedendomi se tutto andasse bene con allarmante frequenza. Il sommelier pareva un poco infastidito che scegliessi dei vini al calice per mio conto senza seguire i suoi consigli. Alla fine, non ho speso poco, ma non ho mangiato male. E così si è concluso il mio (splendido) terzo giorno. L’indomani era tempo di assaggi ma di questo vi parlerò nel prossimo articolo.

Riccardo Margheri
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