InvecchiatIGP. Chianti Classico Riserva DOCG Rancia 1993, Felsina: dopo 32 primavere è sempre in forma4 min read

In questa rubrica non parleremo dei problemi geriatrici di qualcuno di noi (anche se sarebbe utile). Il nostro intento è quello di andare a scovare e raccontare i vini italiani “non giovanissimi”. Abbiamo pensato a questa dizione perché non parleremo quasi mai di quelli che vengono definiti “vini da grande invecchiamento” ma cercheremo sorprese, chicche, specie tra vini che nessuno si aspetterebbe.

Certamente i terreni da cui provenne l’uva di Sangiovese utilizzata trentadue primavere fa per fare questa sontuosa Riserva, quelli dello storico e omonimo vigneto del podere (già convento) Rancia, a 400 metri sulle colline a nord-est di Castelnuovo Berardenga, non beneficiarono delle sofisticate tecniche agronomiche adottate oggi dall’azienda chiantigiana.

Panorama delle vigne

Ma il vino venne buono lo stesso. Anzi, ottimo.

Nel 1993 non fu dunque praticata, ad esempio, alcuna trimpiatura, ossia l’allettamento estivo dell’erba ottenuto meccanicamente in modo che, piegando gli steli senza tagliarli, l’erba stessa sopravviva fino a fine ciclo, trasformandosi in humus e, durante i mesi caldi, funga invece da copertura, mantenendo la temperatura del suolo più bassa di 10° rispetto a quella esterna (una sorta di “pacciamatura viva” insomma, come la definisce il direttore generale di Felsina, Ellis Topini). E non fu fatto alcun uso di biochar, la biomassa parzialmente incombusta che, sparsa oggi tra i filari, assorbe acqua e per osmosi la restituisce piano piano al terreno, rendendolo soffice e offrendo l’habitat ideale per i microrganismi.

Tempo fa, accingendomi all’assaggio del Rancia ’93 che avevo davanti, non riuscivo in effetti a non pensare a tutto questo. E all’attenzione cronica, quasi ossessiva della fattoria verso il Sangiovese, varietà che – scherza il patron Giovanni Poggiali, alludendo alle proprie origini romagnole – sembra quasi scritta nel dna di famiglia.

Giovanni Poggiali

Del resto questo Chianti Classico è da sempre uno dei vini di punta dell’azienda, acquistata nel 1967 dal nonno di Giovanni, Domenico, e trasformata in moderna cantina negli anni ’70 dal figlio Giuseppe, affiancato dallo zio Giuseppe Mazzocolin e dall’enologo Franco Bernabei, che valorizzano la potenzialità dei vigneti con selezioni massali e vinificazioni di microzone, avviando così il percorso ricco di successi e riconoscimenti che conosciamo. Negli anni ’90 entra in azienda Giovanni Poggiali.

La prima annata del Rancia fu la 1983. Con l’annata 2021 passa da Chianti Classico Riserva a Gran Selezione. La macerazione avviene oggi in vasche d’acciaio con follature e rimontaggi giornalieri. In primavera il vino passa in barrique di rovere francese di primo e secondo passaggio per circa 18 mesi, cui seguono assemblaggio e imbottigliamento.

Non ho notizie sulle tecniche di vinificazione utilizzate nel 1993, quando comunque Felsina non era ancora certificata biologica. E non ho assistito alla stappatura che però, a giudicare dal seguito, non deve aver avuto problemi.

Il vino presenta infatti un colore rubino ancora pieno, fitto, caldo, di notevole impatto considerata l’annata. Al naso mantiene una sorprendente freschezza e gli accenni terziari sfumano presto in grande eleganza e in una sensazione di compatta e profonda finezza destinata ad evolversi nel bicchiere, col passare dei minuti, in note balsamiche e asciutte. Al palato colpiscono la severità e l’austerità, ma anche un nerbo pimpante che si prolunga e rende il sorso vellutato, vivo, morbido. Davvero notevole, insomma: un assaggio che tiene botta, e perfino supera, quello dei pur ottimi campioni 1999, 2005 e 2009 testati in verticale nella stessa occasione.

Stefano Tesi

Stefano Tesi, giornalista professionista, scrive per vari giornali italiani di gastronomia e viaggi. Il suo giornale online è Alta Fedeltà.


LEGGI ANCHE