Un biglietto da visita così grande non l’avevo mai visto. Era alto almeno 10 metri ed accanto a lui ce ne erano molti altri, tutti grossi più o meno come il primo. In realtà non era di carta ma di legno e foglie e sembrava vi fosse scritto sopra “Benvenuti nel Salento”. Ero appena giunto in questa terra conosciuta (anche) per l’olio, che essa mi metteva davanti la sua quintessenza: un campo di olivi centenari che pareva un vero e proprio museo all’aria aperta. Ognuna di queste piante è infatti una vera e propria opera d’arte, una diversa dall’altra. Chi talmente larga e tozza che tre uomini non ce la farebbero ad abbracciarla, un’altra con un buco al centro dove un bambino potrebbe stare tranquillamente in piedi, una terza talmente nodosa che pare ripiegata su se stessa. Per non parlare appunto dei nodi, che sembrano occhi: qualcuno con lo sguardo allegro, altri triste, molti con l’occhiataccia burbera. I rami assomigliano a braccia di titani e se li tocchi ti accorgi che hanno una vera e propria pelle, resa ruvida e rugosa dagli anni. La chioma è gigantescamente intricata (stavo per dire spettinata) e sotto di essa non si gode solo dell’ombra, ma della pace e della tranquillità che solo un secolare conoscitore del mondo può darti. Essendo un’amante di Tolkien e del suo stupendo Signore degli Anelli (purtroppo riportato malamente in pellicola!) mi vengono in mente gli Ent, i pastori d’alberi. Ma dei pastori in carne e ossa, passandomi accanto con i loro greggi, mi riportano alla realtà. La realtà mi dice che sto guardando “solo” degli olivi, della cultivar Cellina di Nardò, che assieme all’ Ogliarola è la più piantata in zona.
Ma io preferisco chiamarli Ent, anche solo come diminuitivo di “Entusiasmanti opere della natura”.
La stanza del Vescovo
Apro la porta e sono in un bel salotto arredato con mobili antichi. Sulla destra si vede la camera con il letto a baldacchino. Sempre sulla destra c’è un’altra stanza. E’ piccola, con due soli arredi: una poltrona ed un poggiapiedi. La mia attenzione è attratta, oltre che dal bell’affresco sul soffitto, da una targhetta con scritto “Pensatoio”.
Sono nella “Stanza del Vescovo”, la camera (così la chiamano loro!) dove io dormirò nel mio soggiorno a Galatina. La cosa che mi stupisce di questa bellissima stanza d’albergo è sicuramente il Pensatoio. Mi vengono a mente molte delle camere d’albergo dove ho dormito: grandi, piccole, ma in nessun caso c’era un luogo utilizzato per far “pensare” gli ospiti. Questo per me vuol dire attribuire un significato non scontato ed uno spazio concreto ad alcune parole come calma, riposo, tranquillità. La Stanza del Vescovo, assieme alla Nido d’Amore ed altre stanze dai nomi molto promettenti si trovano in un palazzo del XVI° secolo, trasformato nell’albergo più intrigante che abbia visto in vita mia. Fuori dalle sua mura si apre il centro storico di Galatina. Ammetto sin da ora che mi ha sorpreso, non me lo aspettavo così bello. Dal Rosone e dagli affreschi quattrocenteschi della Basilica di Santa Caterina d’Alessandria, alla facciata della Chiesa di San Pietro e Paolo. Dai palazzi nobiliari ai portali in legno che, sormontati da insegne gentilizie costellano le vie più antiche, la mia passeggiata è andata di bellezza in bellezza, di scoperta in scoperta. A puro scopo didattico (si fa per dire!) ho deciso anche di condirla a dovere con due specialità della pasticceria locale, un dolcino alla pasta di mandorle e un meraviglioso pasticciotto alla crema. Questo dolce è particolarmente libidinoso perchè nell’impasto esterno si trova anche della pasta di mandorle, che crea così un godurioso contrasto dolce-amaro con la crema. Avendo saziato la didattica mi è rimasta solo un’altra azione pedagogica, quella di imparare a digerire alla svelta per poter essere pronto per la cena.
Proverbi
Uegghiu e sale e ogni erva si pò mangiare. Questo proverbio salentino, che si capisce anche senza traduzione, dimostra come la fame possa da una parte portarti a mangiare qualsiasi cosa, ma dall’altra aguzzi l’ingegno. La cucina salentina ha fatto tesoro di entrambe le cose, sviluppando una serie di ricette povere tra le più consistenti e saporite del nostro stivale. Potrei citare alcune decine di piatti gustosissimi soprattutto di verdure, però, non volendo dare sfoggio di bravura (e soprattutto non volendo confessare di averli mangiati tutti), mi limito ad alcune semplici chicche. Per prime, in rigoroso ordine di servizio le Pittule (le madri di tutte le frittelline di farina!) con il vincotto, seguite da ciciari frizzuli e tria, tria cu li mugnuli , fave e cicoria, lampascioni fritti. Qui siamo nel vero mondo casalingo salentino dove ceci, pasta, cicoria ed ogni più strano frutto della terra (lampascioni in primis) viene utilizzato al meglio, creando piatti dove “uegghiu e sale” sono da sempre base insostituibile. Ma in casa entrano anche prodotti del mare e allora largo alla “taieddra (teglia) di zucchine patate e cozze e al purpu alla pignata, dove è fondamentale la fase della battitura del povero mollusco. E’ tanto importante questo momento che i salentini ci hanno fatto sopra un’altro proverbio molto esplicativo “Purpu male battutu quiddhru ca faci ete pirdutu”
Quasi tutti i locali dove ho mangiato davano spazio anche a piatti di cucina più creativa, sempre però molto ancorata alle materie prime tradizionali. Per farvi un esempio cito due piatti: un tagliolino al corallo e profumo di limone e una costata di tonno sfumata all’olio extravergine d’oliva, cupola di sfoglia e olive nere.
Prendendo per buono anche un terzo proverbio locale che recita “lu megghiu cuecu ete lu ‘ppittitu” io non mi sono risparmiato nell’assaggiare i piatti di questa terra. Ho gradito talmente tanto che il nostro mitico fotografo Bruno, da sempre compagno in questi viaggi, ha voluto coniare lui un motto. Io lo reputo vagamente irriverente, ma comunque lascio a voi la valutazione finale. “Chi con Carlo vuol viaggiare, come un maia….. deve mangiare.”
E voi continuate a viaggiare con me in Salento. Ci sono ancora tante belle cose da vedere e da gustare….alla prossima puntata.