Primitivo di Gioia del Colle: grande vino senza…. terra4 min read

Questo articolo è stato scritto a quattro mani. le parti in corsivo sono di Pasquale Porcelli.

 

I francesi lo chiamano coup de coeur, che tradotto in italiano è colpo di fulmine . Il Primitivo di Gioia del Colle si presentò a me in questa forma. In realtà la forma era quella di una bottiglia di un vino che meritò le nostre 5 stelle: il Primitivo “17” del 2006 di Polvanera.

I colpi di fulmine sono però continuati a Radici (la bellissima manifestazione che ogni anno premia i migliori vini da vitigni autoctoni di Puglia) moltiplicandosi almeno per tre, visto che nella scorsa edizione ai primi tre posti si sono piazzati (tra quasi 200 vini di altre zone) tre Primitivi di Gioia del Colle. Ora a forza di colpi si può anche morire e quindi, tenendoci alla salute, ho chiesto al nostro Pasquale Porcelli di organizzarmi un giretto in zona. Oltre al grazie doveroso a questo caro amico, devo ringraziare anche l’associazione Propapilla e l’Onav di Bari, in particolare l’instancabile Enzo Scivetti.

Ma veniamo alle “gioie di Gioia”: la prima impressione non è stata di gioia ma di sorpresa: nel territorio della DOC Gioia del Colle, che si trova circa a 30 chilometri a sud-ovest di Bari, non c’è terra! Non che siano sospesi per aria: sto parlando di terra morbida, coltivabile. Di questa, scavando, se ne può trovare al massimo mezzo metro, poi c’è solo roccia.

Il sottosuolo è tutto composto da rocce calcaree e quindi le povere viti, per nutrirsi, devono infilare le loro radici nelle fessure della roccia. Sicuramente una vitaccia, ma come tutti sappiamo la “sofferenza” della vite porta a prodotti di maggior livello qualitativo.

Questa mancanza di terra coltivabile (che per certi versi ricorda alcuni vigneti del Carso) non è però l’unica differenza tra questo primitivo e quello di Manduria. La DOC si trova mediamente a 200 metri sopra il livello del mare e questo permette una maggiore escursione termica. Porta inoltre a vendemmie più tardive (dalla fine di agosto in poi) rispetto a Manduria  e permette alle componenti fenoliche di maturare con maggiore calma. I vini hanno comunque alte gradazioni alcoliche ed anche qui il problema principale è il riuscire a mantenere l’alcolicità a livelli “umani” (per umani si intende attorno ai 15°) raggiungendo anche una buona maturità fenolica.
Di diverso rispetto a Manduria c’è anche l’estensione: si parla appena di 250 ettari e di una quindicina di produttori, tutti abbastanza piccoli.

Forse è questo uno dei tanti atout della denominazione:  avere praticamente tutti le stesse dimensioni ed una gestione della vigna e della cantina di tipo “artigianale”. In vigna, dopo il furore degli espianti degli anni passati che ha visto ridurre sin quasi ad azzerare in alcune zone le coltivazioni ad alberello, oggi c’è una tendenza al recupero (anche se non mancano nuovi impianti a spalliera) di questa forma di allevamento tradizionale con rese molto basse. Purtroppo il prezzo delle uve in questa ultima campagna non incentiva certo al mantenimento degli impianti ad alberello e l’averli recuperati e reimpiantati  avviene più sulla base del sentimento che su quella di  un ragionamento meramente economico.
In cantina, gli impianti tecnologici sono ridotti all’essenziale, pur nel rispetto delle innovazioni.  Una situazione ideale per la produzione di vini di grande livello, capaci di esprimere territorialità  attraverso una artigianalità spesso sacrificata in nome delle grandi dimensioni, a cui la Puglia ci ha spesso abituato. Ovviamente non basta essere piccoli per essere bravi e buoni, ma la nuova generazione di produttori che si raccoglie attorno al Consorzio di Tutela  sembra avere le idee molto chiare. Lo stanno a dimostrare  i loro vini ed i passi mossi in questi ultimi tempi (educational per giornalisti nazionali ed esteri, incontri mirati con buyers internazionali). Nei prossimi anni si giocherà una partita decisiva per il futuro di questo piccolo territorio. Molto dipenderà dalla capacità di restare uniti, di non cedere alla tentazione del “fai da te”. Anche da questo punto di vista sembra che si respiri l’aria giusta.

E con quest’aria giusta nelle narici ho salutato le “gioie di Gioia” certo di avere incontrato una realtà che in futuro farà molto parlare di se.

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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